Come è noto,
gli Stati Uniti, prima società post-industriale, sono stati i primi a subire
gli effetti della delocalizzazione da parte delle loro imprese, indotta dalle
politiche neoliberiste portate avanti dai governi Reagan, Bush senior, Clinton
e Bush junior, con la sottoscrizione di accordi di libero scambio quali il Nafta
e la rimozione progressiva di tutte le barriere a protezione del mercato
interno. Da avanguardia capitalistica quali erano, gli Usa tracciarono quindi il
sentiero che avrebbero progressivamente percorso tutti gli altri Paesi
industrializzati, facendo sì che nell'arco di trent'anni (1980-2010), gli
investimenti esteri della Francia crescessero dal 3,6 al 57% del Pil, quelli
della Germania dal 4,7 al 45,7%, quelli dell'Italia dal 6 al 28%. Secondo alcuni
calcoli, se quella ricchezza fosse rimasta entro i rispettivi confini
nazionali, la Francia avrebbe creato 5,9 milioni di posti di lavoro, la
Germania 7,3 milioni e l'Italia 2,6 milioni – non è un caso che tutti i Paesi
che hanno fatto massiccio ricorso alla delocalizzazione siano stati scavalcati
nelle classifiche internazionali.
Per gli Usa
le cose stanno in maniera ancora peggiore, poiché l'impatto della
delocalizzazione degli impianti produttivi verso i Paesi che offrono serbatoi
pressoché inesauribili di manodopera a basso costo è stato letteralmente
devastante. Un'inchiesta
del New York Times risalente al 2006
ha documentato l'impatto sul settore automobilistico della deindustrializzazione
indotta dalla delocalizzazione. Secondo le rivelazioni dell'autorevole
quotidiano newyorkese, il trasferimento di centinaia di migliaia di posti di
lavoro all'estero ha fatto sì che nelle città assurte negli anni '20 a capitali
mondiali dell'automobile la disoccupazione dilagasse e i lavoratori pensionati
superassero per numero quelli occupati nel settore stesso. Come conseguenza, metropoli
come Detroit si sono trasformate in città fatiscenti in cui l'aumento degli
individui ridotti sul lastrico a causa della perdita del lavoro ha favorito una
vera e propria proliferazione incontrollata della criminalità.
Il calo dei
posti di lavoro disponibili non è tuttavia imputabile unicamente alla
delocalizzazione, ma anche alla progressiva introduzione di macchine che hanno
gradualmente sostituito i colletti blu, i quali sono stati costretti a
riciclarsi nei campi lavorativi comunemente rientranti nel settore terziario. L'effetto
diretto di questo processo è stato l'affermazione del comparto dei servizi a
scapito di quello manifatturiero in tutte le economie mature che in epoche
precedenti erano state investite da poderosi processi di industrializzazione.
In Gran Bretagna, Paese da cui ebbe origine la Rivoluzione Industriale, l'occupazione
manifatturiera era al 45% alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, per poi
scendere a poco più del 30% ed attestarsi su quel livello fino ai primi anni '70,
quando ha cominciato a crollare. Attualmente, il settore industriale impiega
meno del 10% della forza lavoro complessiva del Paese. In Svezia, l'occupazione
nel settore manifatturiero ha raggiunto un picco del 33% intorno alla metà
degli anni '60, per poi precipitare a valori di poco superiori al 10%. Anche in
Germania, la più moderna potenza industriale del mondo, l'occupazione
manifatturiera ha raggiunto il picco del 40% verso il 1970, e da allora ha
cominciato a diminuire a ritmo costante. Negli Stati Uniti, ai primordi del XIX
Secolo, il settore manifatturiero impiegava meno del 3% della forza lavoro, ma
la sua vertiginosa espansione lo portò ad assorbire qualcosa come il
25-27% della massa lavoratrice nei primi anni '60. Da allora, sull'onda della deindustrializzazione, l'occupazione nel comparto manifetturiero è calata costantemente fino ad assorbire meno del 10% dei lavoratori.
Nello
specifico, tra il 1980 e il 1990 il numero degli impiegati nel settore scese a 17,7 milioni di unità a fronte di un incremento dell'occupazione
totale da 90 a 108 milioni di persone. Il che ha favorito il
sorgere di due fenomeni di portata epocale, quali l'esplosione del deficit estero
degli Usa, che non producendo quasi più nulla si videro costretti da importare
quantità sempre crescenti di merci approfittando del ruolo di moneta di
riferimento internazionale di cui è titolare il dollaro, e l'abbassamento dei
salari, come conseguenza diretta del calo vertiginoso di posti di lavoro di
buon livello in favore di quelli assai meno tutelati nelle varie branche dei servizi. Gli
impiegati nel terziario non godono infatti dei benefici conquistati nel corso
dei decenni dai colletti blu, che già durante il boom economico del secondo
dopoguerra erano riusciti ad ottenere buone condizioni per quanto riguarda le
prestazioni mediche e le pensioni, incluse nei contratti di categoria e pagate
della imprese. Durante gli anni '70, i salari reali Usa, misurati a prezzi
costanti 1982 e calcolati su base settimanale, erano calati dai 313 dollari del
1970 ai 299 del 1979, ma questa diminuzione era imputabile essenzialmente alla
riduzione delle ore lavorate, connessa a sua volta all'esaurirsi della spinta
propulsiva keynesiana rappresentata dalla Guerra del Vietnam. Nel decennio che
va dal 1980 al 1990, calarono invece sia i salari orari che i guadagni
settimanali, che scesero – sempre a prezzi costanti del 1982 – a 263 dollari. Sotto
l'amministrazione Clinton, il calo occupazionale nel settore manifatturiero e
la tendenza al ribasso dei salari subirono una battuta d'arresto dovuta alla
crescita elefantiaca della bolla della New Economy, che implicava una notevole
attività manifatturiera.
All'epoca,
schiere di investitori, incoraggiate dai bassi tassi di interesse applicati
dalla Federal Reserve, invasero il mercato delle telecomunicazioni facendo
crescere l'indice Nasdaq dell'85% nel solo 1999. Nella primavera del 2000, la
capitalizzazione di mercato delle aziende operanti nel comparto delle
telecomunicazioni raggiunse le 2,7 migliaia di miliardi di dollari. Le aziende
del settore, inebriate dalla frenesia generale, iniziarono a coprire il suolo
statunitense e persino i fondali oceanici con interi reticolati di cavi in fibra
ottica lunghi milioni di km; una quantità di gran lunga superiore a quella
necessaria a soddisfare la domanda reale di linee di comunicazione. Alimentata
dalla fiducia che il mercato dell'hi-tech si sarebbe espanso all'infinito, la
crescita di questo settore si arrestò rapidamente a causa del drastico calo di
profitti indotto dal bassissimo tasso di utilizzazione, prossimo al 3%, delle
reti di telecomunicazione. Ciò determinò l'arresto della speculazione al rialzo
e l'automatico avvio di quella al ribasso, la quale innescò una lunga catena di
fallimenti che portò le compagnie operanti nel settore delle telecomunicazioni
a trascinare nella loro caduta gran parte dei titoli tecnologici (telefonia
mobile e fissa, software, informazione on-line, siti di e-commerce, web-agency,
incubatori di start-up, ecc.) – provocando
la bancarotta di alcune aziende di grandi dimensioni (Worldcom, QWest, Global
Crossing) – e a porre fine alla breve fase espansiva che, secondo il parere di
svariati economisti statunitensi, si sarebbe dovuta propagare per molti anni. Dall'esplosione
della bolla della New Economy, i salari reali statunitensi hanno ripreso assieme
al tasso di occupazione manifatturiera.
La
sconsiderata gestione dell'immigrazione, che ha di fatto messo in concorrenza i
lavoratori autoctoni con quelli stranieri, disposti ad accontentarsi di paghe
ridotte e di minori garanzie pur di trovare un'occupazione, ha inoltre contribuito
non soltanto a consolidare la tendenza al ribasso dei salari, ma anche ad
assestare un colpo micidiale alle conquiste sociali ottenute nel corso dei
decenni dalle classi lavoratrici. Si è così inaugurata l'era della
flessibilità, che ha radicalizzato il processo di svalutazione e
precarizzazione del lavoro. Come osserva l'analista
di Merrill Lynch Jose Rasco: «il lavoratore temporaneo è il lavoratore
marginale, il primo ad essere licenziato […]. La crescita di lavoratori
temporanei è il segno che i datori di lavoro stanno cominciando ad applicare i
principi della contabilità alle risorse umane. Le imprese, cioè, stanno forse
tramutando il lavoro da costi fisso a costo variabile. Invece di arruolare
lavoratori e pagargli un salario integrale con i benefici sociali, le aziende
li tengono come lavoratori temporanei e flessibili; la forza-lavoro può così
essere adattata secondo i capricci della domanda. Aziende che non dispongono di
pricing power [ossia non dispongono più del potere di determinare i prezzi a
cui vendere le proprie merci a causa della sovrabbondanza dell'offerta rispetto
alla domanda], quando in più le materie prime rincarano, che cosa possono fare
per aumentare i loro margini di profitto? La risposta è ovvia. Il modo più
facile di accrescere la profittabilità è ridurre il maggior costo fisso: la
manodopera».
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