domenica 22 dicembre 2019

Il petrolio siriano al centro del "grande gioco"




«Ci impadroniremo del petrolio siriano e lo consegneremo alle compagnie statunitensi, per evitare che se ne appropri l'Isis». Donald Trump non poteva esprimersi in maniera più chiara e inequivocabile nel corso della conferenza stampa organizzata lo scorso ottobre per proclamare trionfalmente – ma senza mostrare alcuna prova a supporto – l'uccisione del califfo al-Baghdadi per mezzo di un raid aereo condotto dall'Usaf. Durante l'incontro con i giornalisti, il presidente non mancò inoltre di annunciare lo schieramento, che andava a configurarsi come una palese violazione delle più elementari norme di diritto internazionale, di truppe statunitensi nelle aree petrolifere che circondano Deir ez-Zohr, città simbolo dell'immane massacro degli armeni ad opera dei Giovani Turchi recentemente inquadrato come vero e proprio genocidio da parte del Congresso Usa con voto pressoché unanime.
Attualmente, la Siria produce a malapena 25.000 barili di greggio al giorno a fronte dei quasi 350.000 registrati nel 2011, alla vigilia dello scoppio del conflitto, e destinati in larghissima parte a soddisfare il fabbisogno interno. Un'inezia rispetto al vicino Iraq, che produce circa 6 milioni di barili al giorno e dispone di riserve accertate per 142 miliardi di barili (alcune stime ritengono tuttavia possibile che la reale consistenza dei giacimenti iracheni ammonti addirittura a 400 miliardi di barili). Stesso discorso vale per l'Iran, che oltre a detenere riserve petrolifere provate per 158 miliardi di barili dispone di 33 trilioni di m3 di gas naturale (secondo Paese al mondo alle spalle della Russia). Tuttavia, proprio nelle aree geografiche limitrofe a Deir ez-Zohr sono stati recentemente scoperti vasti giacimenti petroliferi sui quali sembra aver posato gli occhi l'Arabia Saudita, che tramite la colossale Saudi Aramco starebbe accantonando la liquidità finanziaria necessaria ad attivare i nuovi pozzi. Nel dettaglio, spiega una fonte generalmente assai ben informata, «l'investimento verrà effettuato attraverso contratti stipulati tra Aramco e governo degli Stati Uniti, le cui forze controllano attualmente la maggior parte dei giacimenti di petrolio e gas nel nord-est della Siria». Qualora Saudi Aramco dovesse concretamente dar seguito ai propri propositi ponendo le basi per lo sfruttamento del petrolio siriano senza l'accordo di Damasco, la crisi regionale che contrappone ormai da anni le petro-monarchie sunnite del Golfo Persico e la cosiddetta "mezzaluna sciita" che riunisce Iran, Siria, Hezbollah e Iraq potrebbe verosimilmente raggiungere un pericoloso punto critico. Tanto più alla luce degli attacchi sferrati lo scorso settembre dai ribelli Houthi contro alcune strutture chiave attraverso le quali si espleta l'export di petrolio saudita; come conseguenza, Riad si vide costretta a ridimensionare il volume delle esportazioni di greggio per diversi giorni scatenando il caos sul mercato petrolifero internazionale.
Si tratta di un problema non da poco per la dinastia al-Saud, perché la fama di swing producer globale di cui l'Arabia Saudita gode storicamente è entrata ormai da anni in una rapida fase di logoramento. La possibilità di limitare deliberatamente la produzione a seconda delle necessità interne e delle fluttuazioni della domanda internazionale di petrolio che il Paese ha sempre avuto a propria disposizione sta infatti venendo progressivamente meno quantomeno a partire dal 2014. Anno in cui Riad concordò con Washington una strategia operativa consistente nel pilotare il crollo del prezzo del petrolio al fine assestare un duro colpo ad Iran e Russia, nazioni che necessitano di un break-even superiore a quello dell'Arabia Saudita. Per quest'ultima, la cui economia dipende tra l'80 e il 90% dalla rendita petrolifera, la strategia dell'oil crash si rivelò tuttavia un vero e proprio boomerang poiché la drastica contrazione delle entrate andò a combinarsi con le spese folli della numerosissima famiglia reale, i colossali piani di riarmo già predisposti allo scopo di potenziare l'architettura di difesa saudita nella Penisola Araba e i costi crescenti della disastrosa guerra in Yemen. Nell'agosto 2014, le riserve valutarie a disposizione di Riad ammontavano a 747 miliardi di dollari (cifra record), ma la crescita esponenziale delle uscite cominciò ad eroderle al ritmo di non meno di 12 miliardi al mese. Secondo un'analisi realizzata dal Fondo Monetario Internazionale, la tendenza riduzione delle riserve valutarie saudite andò velocemente consolidandosi al punto di divenire strutturale.
La consapevolezza che uno delle categorie maggiormente colpite da un crollo del prezzo del petrolio sarebbe stata quella che riunisce le decine di piccole e medie imprese statunitensi operanti nel settore dell'estrazione degli idrocarburi non convenzionali, che necessita una soglia di remunerazione piuttosto elevata, non contribuì affatto a indurre l'amministrazione Obama a desistere dall'appoggiare con convinzione la strategia dell'oil crash. Analogamente agli anni '80, quando l'affossamento della quotazione del greggio fu utilizzata dagli Usa per assestare un colpo micidiale all'arrancante economia dell'Unione Sovietica, all'epoca impantanata della disastrosa campagna militare in Afghanistan, nel 2014 il governo statunitense decise di avvalersi dell'arma petrolifera per indebolire la Russia, reduce dal recentissimo inglobamento della Crimea sull'onda della crisi ucraina.
La depressione del corso petrolifero rappresentò un fattore fortemente critico per gli estrattori di petrolio non convenzionale statunitense, che riuscirono tuttavia a mantenersi a galla grazie ai crediti a buon mercato garantiti dalle banche per effetto della politica dei bassi tassi di interesse portata avanti dalla Federal Reserve.
Coniugandosi con la resilienza dei petrolieri statunitensi e con lo sviluppo di sempre più efficaci tecniche di fracking, l'indebolimento della leva petrolifera a disposizione dei sauditi indusse finì così per indurre una parte piuttosto cospicua degli addetti ai lavori a ritenere che gli Stati Uniti si stiano preparando, se non a sostituire, quantomeno ad affiancare l'Arabia Saudita nel suolo di swing producer globale. Senonché, grazie soprattutto all'attivismo diplomatico del Cremlino, i Paesi produttori di petrolio non inquadrati nell'Opec hanno raggiunto un'intesa de facto con le nazioni appartenenti al cartello con sede a Vienna che ha portato alla nascita di un nuovo organismo, ribattezzato Opec+. La cui mossa di apertura è consistita nell'attuazione di nuovi tagli della produzione atti a limitare l'offerta petrolifera. Segno, rileva l'analista Demostenes Floros, che «l'influenza politica di Mosca sull'Opec è un dato di fatto, mentre il peso statunitense sull'organizzazione, la quale era sempre stata considerata una sorta di "giardino di casa di Washington" da parte delle élite americane, sta sensibilmente diminuendo [...]. L'impressione è che con la nascita dell'Opec+ e con la Cina frattanto divenuta il principale importatore di petrolio al mondo, i sauditi già condividono questa responsabilità con la Federazione Russa più che con gli Usa».
In tale contesto, il petrolio siriano – che Damasco non potrà comunque utilizzare fintantoché non verranno riattivati gli impianti di estrazione, la cui messa in funzione richiede investimenti del tutto proibitivi per il momento – riveste pertanto un'importanza geopolitica e strategica, oltre che economica. Obiettivo degli Stati Uniti è infatti quello di privare il governo siriano delle risorse necessarie alla ricostruzione post-bellica, che il presidente Bashar al-Assad ha più volte annunciato di voler affidare a compagnie russe, cinesi e iraniane come forma di ricompensa per il sostegno militare, politico ed economico assicurato da Mosca, Pechino e Teheran nel momento in cui il Paese si trovava sotto pressione sia interna – esercitata dai gruppi jihadisti – che esterna – esercitata dagli Usa e dai loro alleati della Nato, oltre che dalle monarchie sunnite del Golfo Persico.
Sottraendo al governo siriano il controllo sulle aree circostanti Deir ez-Zohr, Washington intende inoltre di precludere qualsiasi prospettiva di realizzazione del cosiddetto "gasdotto islamico", una conduttura di cui Damasco, Baghdad e Teheran avevano concordato la costruzione nel 2010 per garantire l'afflusso del gas naturale iraniano fino alla città di Banyas, situata sulla costa mediterranea della Siria, attraverso il territorio iracheno. La pipeline si accreditava come alternativa fondamentale alla conduttura che il Qatar aveva proposto l'anno precedente allo stesso Assad, che oppose un secco rifiuto motivato dalla volontà di tutelare gli interessi energetici dell'alleata Russia, principale esportatrice di gas verso il "vecchio continente". La messa a regime della conduttura iraniana, concepita con il pieno assenso di Mosca, minacciava di trasformare la Persia in uno dei principali fornitori europei, cosa che non poteva che suscitare grandi preoccupazioni negli Stati Uniti, in Israele e in Arabia Saudita, acerrimi nemici della Persia sciita. Di qui la decisione, da parte di monarchie del Golfo Persico, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Turchia, di sostenere l'opposizione siriana e predisporre una rivolta finalizzata al rovesciamento di Assad. Prese cose così corpo una massiccia insurrezione guidata da orde etero-dirette di jihadisti confluiti in Siria da gran parte della sterminata galassia sunnita da cui nacque il cosiddetto "Stato Islamico", una organizzazione che rispondeva in pieno alla finalità di balcanizzare la Siria e impedire la costruzione del "gasdotto islamico".
Allo stesso tempo, l'occupazione militare dei pozzi petroliferi di Deir ez-Zohr si delinea come un monito che l'amministrazione Trump ha voluto lanciare a Russia e Turchia, riavvicinatesi con gli accordi per l'acquisto dei sistemi anti-missile di fabbricazione russa S-400 ad opera di Ankara (una mossa che si pone in netto contrasto con l'appartenenza della Turchia alla Nato) e per la realizzazione del gasdotto Turkish Stream, nato sulle ceneri del vecchio South Stream e progettato come quest'ultimo per garantire l'afflusso di metano russo verso l'Europa. Non a caso, sia Putin  che Erdoğan hanno criticato duramente la decisione di Trump di appropriarsi direttamente dei giacimenti siriani, nella consapevolezza che il disegno strategico elaborato dalla Casa Bianca mira al controllo sui flussi energetici che raggiungono il "vecchio continente", e alla contestuale distribuzione delle quote di potere in base alla posizione e del ruolo giocato dagli Stati mediorientali,  in un'ottica di marginalizzazione dell'Iran e di riduzione della dipendenza dell'Europa dagli approvvigionamenti russi. Non a caso, l'Unione Europea si è immediatamente allineata alle direttive statunitensi imponendo sanzioni contro Ankara e spedendo navi militari francesi e italiane presso Cipro come ritorsione (rispettivamente) per il recente sconfinamento di truppe turche nel Kurdistan siriano e l'invio della nave da trivellazione Yavuz presso i giacimenti situati all'interno della 'zona di sfruttamento esclusivo' cipriota. La stessa area cioè, in cui operano le compagnie statunitensi ExxonMobil e Noble Energy, l'israeliana Dalek, la Qatar Petroleum, l'italiana Eni e la francese Total. Il gas cipriota riveste un'importanza cruciale, perché dovrebbe andare a riempire, di concerto con quello egiziano estratto dal colossale giacimento Zohr e con quello israeliano proveniente dai pozzi Tamar e Leviathan, il gasdotto East-Med, concepito di comune accordo da Cipro, Grecia, Italia e Israele per inondare i mercati europei di metano alternativo a quello russo trasportato via Turchia attraverso il Turkish Stream e i due segmenti del Nord Stream.
Il petrolio siriano va pertanto a inserirsi prepotentemente nel "grande gioco" energetico in cui sono coinvolte a vario titolo tutte le principali potenze europee, asiatiche e americane.

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