«Ci impadroniremo del petrolio siriano e lo consegneremo alle compagnie
statunitensi, per evitare che se ne appropri l'Isis». Donald Trump non poteva esprimersi in maniera più chiara e
inequivocabile nel corso della conferenza stampa organizzata lo scorso ottobre per
proclamare trionfalmente – ma senza mostrare alcuna prova a supporto – l'uccisione
del califfo al-Baghdadi per mezzo di un raid aereo condotto dall'Usaf. Durante
l'incontro con i giornalisti, il presidente non mancò inoltre di annunciare lo
schieramento, che andava a configurarsi come una palese violazione delle più elementari norme di
diritto internazionale, di truppe statunitensi nelle aree petrolifere che
circondano Deir ez-Zohr, città simbolo dell'immane massacro degli armeni ad
opera dei Giovani Turchi recentemente inquadrato come vero e proprio genocidio
da parte del Congresso Usa con voto pressoché unanime.
Attualmente, la Siria produce a
malapena 25.000 barili di greggio al giorno a fronte dei quasi 350.000 registrati
nel 2011, alla vigilia dello scoppio del conflitto, e destinati in larghissima
parte a soddisfare il fabbisogno interno. Un'inezia rispetto al vicino Iraq,
che produce circa 6 milioni di barili al giorno e dispone di riserve accertate
per 142 miliardi di barili (alcune stime ritengono tuttavia possibile che la
reale consistenza dei giacimenti iracheni ammonti addirittura a 400 miliardi di
barili). Stesso discorso vale per l'Iran, che oltre a detenere riserve petrolifere
provate per 158 miliardi di barili dispone di 33 trilioni di m3 di gas naturale
(secondo Paese al mondo alle spalle della Russia). Tuttavia, proprio nelle aree
geografiche limitrofe a Deir ez-Zohr sono stati recentemente
scoperti vasti giacimenti petroliferi sui quali sembra aver posato gli
occhi l'Arabia Saudita, che tramite la colossale Saudi Aramco starebbe accantonando
la liquidità finanziaria necessaria ad attivare i nuovi pozzi. Nel dettaglio, spiega
una fonte generalmente assai ben informata, «l'investimento verrà effettuato attraverso
contratti stipulati tra Aramco e governo degli Stati Uniti, le cui forze
controllano attualmente la maggior parte dei giacimenti di petrolio e gas nel
nord-est della Siria». Qualora Saudi
Aramco dovesse concretamente dar seguito ai propri propositi ponendo le basi
per lo sfruttamento del petrolio siriano senza l'accordo di Damasco, la crisi
regionale che contrappone ormai da anni le petro-monarchie sunnite del Golfo
Persico e la cosiddetta "mezzaluna sciita" che riunisce Iran, Siria,
Hezbollah e Iraq potrebbe verosimilmente raggiungere un pericoloso punto
critico. Tanto più alla luce degli attacchi sferrati lo scorso settembre dai ribelli Houthi contro alcune
strutture chiave attraverso le quali si espleta l'export di petrolio saudita;
come conseguenza, Riad si vide costretta a ridimensionare il volume delle
esportazioni di greggio per diversi giorni scatenando il caos sul mercato petrolifero internazionale.
Si tratta di
un problema non da poco per la dinastia al-Saud, perché la fama di swing
producer globale di
cui l'Arabia Saudita gode storicamente è entrata ormai da anni in una rapida
fase di logoramento. La possibilità di limitare deliberatamente la produzione a
seconda delle necessità interne e delle fluttuazioni della domanda
internazionale di petrolio che il Paese ha sempre avuto a propria disposizione
sta infatti venendo progressivamente meno quantomeno a partire dal 2014. Anno
in cui Riad concordò con Washington una strategia operativa consistente nel
pilotare il crollo del prezzo del petrolio al fine assestare un duro colpo ad
Iran e Russia, nazioni che necessitano di un break-even superiore a quello dell'Arabia Saudita. Per quest'ultima,
la cui economia dipende tra l'80 e il 90% dalla rendita petrolifera, la
strategia dell'oil crash si rivelò
tuttavia un vero e proprio boomerang poiché la drastica contrazione
delle entrate andò a combinarsi con le spese folli della numerosissima famiglia
reale, i colossali piani di riarmo già predisposti allo scopo di potenziare
l'architettura di difesa saudita nella Penisola Araba e i costi crescenti della
disastrosa guerra in Yemen. Nell'agosto 2014, le riserve valutarie a
disposizione di Riad ammontavano a 747 miliardi di dollari (cifra record), ma
la crescita esponenziale delle uscite cominciò ad eroderle al ritmo di non meno
di 12 miliardi al mese. Secondo un'analisi realizzata
dal Fondo Monetario Internazionale, la tendenza riduzione delle riserve
valutarie saudite andò velocemente consolidandosi al punto di divenire strutturale.
La
consapevolezza che uno delle categorie maggiormente colpite da un crollo del
prezzo del petrolio sarebbe stata quella che riunisce le decine di piccole e
medie imprese statunitensi operanti nel settore dell'estrazione degli idrocarburi
non convenzionali, che necessita una soglia di remunerazione piuttosto elevata,
non contribuì affatto a indurre l'amministrazione Obama a desistere
dall'appoggiare con convinzione la strategia dell'oil crash. Analogamente agli anni '80, quando l'affossamento della
quotazione del greggio fu utilizzata dagli Usa per assestare un colpo micidiale
all'arrancante economia dell'Unione Sovietica, all'epoca impantanata della disastrosa
campagna militare in Afghanistan, nel 2014 il governo statunitense decise di
avvalersi dell'arma petrolifera per indebolire la Russia, reduce dal recentissimo
inglobamento della Crimea sull'onda della crisi ucraina.
La
depressione del corso petrolifero rappresentò un fattore fortemente critico per
gli estrattori di petrolio non convenzionale statunitense, che riuscirono
tuttavia a mantenersi a galla grazie ai crediti a buon mercato garantiti dalle
banche per effetto della politica dei bassi tassi di interesse portata avanti
dalla Federal Reserve.
Coniugandosi con la resilienza
dei petrolieri statunitensi e con lo sviluppo di sempre più efficaci tecniche
di fracking, l'indebolimento della leva
petrolifera a disposizione dei sauditi indusse finì così per indurre una parte
piuttosto cospicua degli addetti ai lavori a ritenere che gli Stati Uniti si
stiano preparando, se non a sostituire, quantomeno ad affiancare l'Arabia
Saudita nel suolo di swing producer
globale. Senonché, grazie soprattutto all'attivismo diplomatico del Cremlino, i
Paesi produttori di petrolio non inquadrati nell'Opec hanno raggiunto un'intesa
de facto con le nazioni appartenenti al cartello con sede a Vienna che ha portato
alla nascita di un nuovo organismo, ribattezzato Opec+. La cui mossa di apertura
è consistita nell'attuazione di nuovi tagli della produzione atti a limitare
l'offerta petrolifera. Segno, rileva
l'analista Demostenes Floros, che «l'influenza
politica di Mosca sull'Opec è un dato di fatto, mentre il peso statunitense
sull'organizzazione, la quale era sempre stata considerata una sorta di
"giardino di casa di Washington" da parte delle élite americane, sta
sensibilmente diminuendo [...]. L'impressione è che con la nascita dell'Opec+ e
con la Cina frattanto divenuta il principale importatore di petrolio al mondo,
i sauditi già condividono questa responsabilità con la Federazione Russa più
che con gli Usa».
In tale contesto, il petrolio
siriano – che Damasco non potrà comunque utilizzare fintantoché non verranno
riattivati gli impianti di estrazione, la cui messa in funzione richiede investimenti
del tutto proibitivi per il momento – riveste pertanto un'importanza
geopolitica e strategica, oltre che economica. Obiettivo degli Stati Uniti è
infatti quello di privare il governo siriano delle risorse necessarie alla
ricostruzione post-bellica, che il presidente Bashar al-Assad ha più volte annunciato di voler affidare a compagnie
russe, cinesi e iraniane come forma di ricompensa per il sostegno militare,
politico ed economico assicurato da Mosca, Pechino e Teheran nel momento in cui
il Paese si trovava sotto pressione sia interna – esercitata dai gruppi
jihadisti – che esterna – esercitata dagli Usa e dai loro alleati della Nato,
oltre che dalle monarchie sunnite del Golfo Persico.
Sottraendo al governo siriano il
controllo sulle aree circostanti Deir ez-Zohr, Washington intende inoltre di
precludere qualsiasi prospettiva di realizzazione del cosiddetto "gasdotto
islamico", una conduttura di cui Damasco, Baghdad e Teheran avevano
concordato la costruzione nel 2010 per garantire l'afflusso del gas naturale
iraniano fino alla città di Banyas, situata sulla costa mediterranea della
Siria, attraverso il territorio iracheno. La pipeline si accreditava come alternativa fondamentale alla
conduttura che il Qatar aveva proposto l'anno precedente allo stesso Assad, che
oppose un secco rifiuto motivato dalla volontà di tutelare gli interessi
energetici dell'alleata Russia, principale esportatrice di gas verso il
"vecchio continente". La messa a regime della conduttura iraniana,
concepita con il pieno assenso di Mosca, minacciava di trasformare la Persia in
uno dei principali fornitori europei, cosa che non poteva che suscitare grandi
preoccupazioni negli Stati Uniti, in Israele e in Arabia Saudita, acerrimi nemici
della Persia sciita. Di qui la decisione, da parte di monarchie del Golfo
Persico, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Turchia, di sostenere l'opposizione
siriana e predisporre una rivolta finalizzata al rovesciamento di Assad. Prese
cose così corpo una massiccia insurrezione guidata da orde etero-dirette di
jihadisti confluiti in Siria da gran parte della sterminata galassia sunnita da
cui nacque il cosiddetto "Stato Islamico", una organizzazione che
rispondeva in pieno alla finalità di balcanizzare la Siria e impedire la
costruzione del "gasdotto islamico".
Allo stesso tempo, l'occupazione
militare dei pozzi petroliferi di Deir ez-Zohr si delinea come un monito che
l'amministrazione Trump ha voluto lanciare a Russia e Turchia, riavvicinatesi
con gli accordi per l'acquisto dei sistemi anti-missile di fabbricazione russa
S-400 ad opera di Ankara (una mossa che si pone in netto contrasto con
l'appartenenza della Turchia alla Nato) e per la realizzazione del gasdotto
Turkish Stream, nato sulle ceneri del vecchio South Stream e progettato come
quest'ultimo per garantire l'afflusso di metano russo verso l'Europa. Non a
caso, sia Putin che Erdoğan hanno criticato duramente la decisione di Trump di appropriarsi
direttamente dei giacimenti siriani, nella consapevolezza che il disegno strategico
elaborato dalla Casa Bianca mira al controllo sui flussi energetici che
raggiungono il "vecchio continente", e alla contestuale distribuzione delle quote di potere in base alla
posizione e del ruolo giocato dagli Stati mediorientali, in
un'ottica di marginalizzazione dell'Iran e di riduzione della dipendenza
dell'Europa dagli approvvigionamenti russi. Non a caso, l'Unione Europea si è
immediatamente allineata alle direttive statunitensi imponendo sanzioni contro
Ankara e spedendo navi militari francesi e italiane presso Cipro come
ritorsione (rispettivamente) per il recente sconfinamento di truppe turche nel
Kurdistan siriano e l'invio della nave da trivellazione Yavuz presso i
giacimenti situati all'interno della 'zona di sfruttamento esclusivo' cipriota.
La stessa area cioè, in cui operano le compagnie statunitensi ExxonMobil e Noble
Energy, l'israeliana Dalek, la Qatar Petroleum, l'italiana Eni e la francese
Total. Il gas cipriota riveste un'importanza cruciale, perché dovrebbe andare a
riempire, di concerto con quello egiziano estratto dal colossale giacimento
Zohr e con quello israeliano proveniente dai pozzi Tamar e Leviathan, il
gasdotto East-Med, concepito di comune accordo da Cipro, Grecia, Italia e
Israele per inondare i mercati europei di metano alternativo a quello russo
trasportato via Turchia attraverso il Turkish Stream e i due segmenti del Nord Stream.
Il petrolio siriano va pertanto a
inserirsi prepotentemente nel "grande gioco" energetico in cui sono
coinvolte a vario titolo tutte le principali potenze europee, asiatiche e
americane.
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