Nel 2012, la Shell si aggiudicò l'appalto per lo sfruttamento del
giacimento di shale gas di Yuzivska, situato al confine tra le regioni ucraine
di Kharkov e Donec'k, che stando a stime statunitensi conterrebbe oltre 4.000
miliardi di m3 di gas. Lo ottenne di concerto con l'ucraina Burisma, holding di
proprietà del potente ed influente oligarca Igor Kolomojskij nel cui consiglio
d'amministrazione sedevano l'ex presidente polacco Alexander Kwasniewski, David
Leiter, capo dello staff del segretario di Stato John Kerry, Hunter Biden,
figlio del vicepresidente statunitense Joe Biden sprovvisto di qualsiasi
esperienza precedente nel settore del gas, e Devon Archer, ex consulente
finanziario di Kerry e socio d'affari dello stesso Hunter Biden nella Rosemont
Seneca, società di consulenza da cui, grazie ai buoni uffici di Joe Biden, nacque
quello che il Wall Street Journal
ha
definito «il più grande fondo private equity cinese-americano»,
costituito assieme al Bohai Investment di Pechino e all'Harvest Global
Investment di Hong Kong. Hunter Biden entrò nel consiglio d'amministrazione del
fondo dopo aver preso parte a una riunione d'alto rango in Cina, dove si
era recato in compagnia del padre mediante un viaggio a bordo dell'Air
Force Two.
All'epoca, il Washington
Post, quotidiano tradizionalmente vicino al Partito Democratico, fu tra i
primi a sollevare forti perplessità in merito alla faccenda, domandando
sarcasticamente «quanto deve essere alto lo stipendio del figlio di Biden
per mettere così a rischio il soft power statunitense». Tanto più che questi intrecci
in cui erano invischiati personaggi legati all'establishment Usa tendevano ad avvalorare
le tesi propugnate dal presidente russo Vladimir Putin, secondo cui l'attivismo
di Washington in Ucraina era profondamente influenzato da concretissimi
interessi personali di alcuni membri del governo.
Alcuni portavoce del governo Usa, dal canto loro, cercarono di
giustificare il tutto sostenendo che l'insediamento nel consiglio di
amministrazione della Burisma di personale fidato e fortemente ammanicato con
le alte sfere del governo di Washington rappresentava una forma di
"garanzia" che gli Stati Uniti intendevano fornire all'Europa
attestante il loro impegno a dotare il "vecchio continente" di una
fonte di approvvigionamento energetico alternativa a quella russa. Che uno
degli obiettivi geostrategici perseguiti da Washington consista nell'indebolire
il vincolo energetico che lega l'Europa a Mosca è fuori di dubbio, ma i retroscena
emersi nel corso delle ultime settimane in merito al caso Burisma lasciano
intendere una realtà ben differente.
Come si
legge sulle colonne di The Hill,
«i documenti bancari statunitensi attestano che la società facente capo a
Hunter Biden, la Rosemont Seneca, aveva ricevuto da Burisma accrediti regolari,
generalmente superiori ai 166.000 dollari al mese, su uno dei suoi conti tra la
primavera del 2014 e l'autunno del 2015; il medesimo lasso di tempo in cui il
vicepresidente Joe Biden ricopriva il ruolo di principale funzionario statunitense
incaricato di gestire la crisi ucraina». Non stupisce pertanto, alla luce di
tutto ciò, che le attività di Hunter Biden fossero
finite sotto la lente d'ingrandimento del procuratore generale ucraino
Viktor Šokin. Il problema è che, una volta scoperta la natura delle indagini
condotte dalla procura di Kiev, Joe Biden pensò bene di avvalersi della sua
autorità per tirare fuori suo figlio Hunter dai guai. Decise pertanto di
intensificare le pressioni sull'allora presidente Petro Porošenko, minacciando
di bloccare il flusso di aiuti statunitensi su cui si reggeva la stabilità
finanziaria della disastrata Ucraina qualora Šokin non fosse stato rimosso
dall'incarico. È stato lo stesso ex vicepresidente statunitense, ora impegnato
alla corsa per la nomination democratica, a raccontare la vicenda in questi
termini, affermando
di aver chiarito dinnanzi alle controparti ucraine che «"se il procuratore
non viene licenziato, non avrete i soldi". Ebbene, quel figlio di puttana
(risate) fu cacciato. E al suo posto nominarono qualcuno che, all'epoca, riscuoteva
il nostro gradimento».
Attualmente, i democratici si avvalgono di questa vicenda come
atto d'accusa per legittimare l'impeachment a danno di Donald Trump, reo –
anziché chiedere delucidazioni a Biden in persona – di aver esercitato forti
pressioni sul nuovo presidente ucraino Volodymyr Zelenskij per costringerlo a
fornirgli informazioni incriminanti sul contro dell'ex vicepresidente, al fine
di minare la sua corsa alla nomination democratica.
Da ciò emerge che tanto Biden quanto Trump hanno sfruttato la loro
posizione di potere per perseguire scopi personali che non hanno nulla a che
vedere con l'interesse del Paese. La differenza è che mentre il presidente il
carica si trova a fronteggiare una procedura d'impeachment (che assai difficilmente
andrà in porto, visto che i repubblicani – pur non coesi in merito al da farsi
– controllano ancora il Senato), l'aspirante candidato democratico alle elezioni
del 2020 non è stato oggetto di alcun procedimento giudiziario né tantomeno
declassato nelle gerarchie del partito.
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