Nel 2018, per la prima volta
nella storia, la fascia più elitaria della società statunitense, quella che
raggruppa l'élite dei multi-miliardari composta da poco più di 400 famiglie, ha
pagato un'aliquota fiscale effettiva – calcolata sommando le tasse federali a
quelle statali e a quelle locali – pari al 23%, a fronte del 24,2% versato dalla
categoria dei lavoratori semplici. Più di un punto percentuale di differenza.
È
quanto emerge dalle ricerche condotte dagli economisti Gabriel Zucman e Emmanuel Saez dell'Università di
Berkeley e condensate nel volume The
triumph on injustice, da poco uscito nelle librerie.
Nel dettaglio, il saggio prende
in esame la variazione storica delle aliquote effettive a carico delle varie
fasce sociali statunitensi, nell'ambito di uno sforzo ricostruttivo che trova
ben pochi precedenti nella pubblicistica economica occidentale. Il quale getta
una luce sinistra su di un processo fortemente involutivo che, a partire dal secondo
dopoguerra, ha visto gli Stati Uniti sprofondare in un progressivo incremento
della disuguaglianza fiscale. In precedenza, sotto il governo guidato da Franklin
D. Roosevelt, gli Usa avevano attuato un rovesciamento dell'architettura tributaria
messa in piedi nel periodo antecedente allo scoppio della crisi del 1929
dall'amministrazione Coolidge, e in particolare dal suo segretario al Tesoro
Andrew Mellon. Dietro sue indicazioni, il presidente Calvin Coolidge introdusse
un pesante aumento delle tasse nei confronti delle fasce sociali meno abbienti
necessario a compensare il taglio delle imposte che era stato decretato nei
confronti del segmento più ricco della popolazione, con l'obiettivo dichiarato
di liberare risorse per gli investimenti produttivi, i quali avrebbero portato vantaggi
a tutta la nazione. Nei fatti, la riforma elaborata da Mellon non fece che
accrescere il potere dei grandi imperi industriali e finanziarie, con l'1% più
ricco della popolazione che nel 1929 arrivò
a detenere un reddito pari al 42% più povero. La battaglia contro la
Grande Depressione contribuì ad abbattere questo modello e far sì che, ancora
negli anni '50, le 400 famiglie più ricche pagassero un'aliquota del 70%. Nel
decennio successivo, la percentuale scese al 56% e rimase sostanzialmente stabile
fino al 1980, quando l'élite aveva ancora a carico un'aliquota del 47%.
Fu sotto l'amministrazione Reagan
che lo scenario cominciò a mutare radicalmente. Il suo Economic Recovery Tax
Act conteneva infatti generosissimi sgravi fiscali su alcuni investimenti
speculativi focalizzati nel settore immobiliare, nell'ambito di un abbassamento
generalizzato delle tasse sui redditi e sui profitti aziendali che fece passare
l'aliquota legale dell'imposta societaria dal 47 al 34%, pari a 5 punti percentuali
in meno rispetto alla media Ocse, mentre la percentuale pagata dalla metà più
povera della popolazione rimaneva praticamente invariata. «Quell'infausta legge – nota
l'autorevole storico Kevin Phillips – consentiva
alle aziende che non potevano utilizzare direttamente le esorbitanti forme di
ammortamento e gli enormi crediti d'imposta sugli investimenti di rivenderli ad
altre aziende. La General Electric […] rivelò di aver utilizzato quel
provvedimento non solo per minimizzare l'imponibile fiscale del 1981, ma anche
per ottenere 110 milioni di dollari di rimborsi fiscali relativi agli esercizi
precedenti. Per il periodo 1982-87, l'azienda espose un ammortamento
complessivo pari all'incredibile cifra di 1.650 miliardi di dollari».
Per giustificare l'entrata in
vigore di una simile ricetta, l'amministrazione Reagan sdoganò il concetto del
trickle down ("gocciolamento"), secondo cui i vantaggi fiscali concessi alle
fasce più abbienti sarebbero ricaduti sulla società nel suo complesso, compresi
i ceti più deboli. I promotori della teoria che ne scaturì, dotata di molti
punti di contatto con quella messa a punto da Mellon prima dello scoppio della
crisi, sostenevano che l'applicazione di un regime tributario più leggero
avrebbe consentito alle grandi imprese di liberare risorse per gli investimenti
produttivi, con conseguente creazione di quei nuovi posti di lavoro necessari
ad alimentare la crescita del reddito delle famiglie e, a ricasco, dei consumi.
Una soluzione, insomma, in grado di coniugare crescita economica e produttività
lavorativa – come suggerito dalla curva di Laffer. In realtà, si trattava di
una radicale inversione di tendenza rispetto al periodo rooseveltiano, durante
il quale la tassa sul reddito era
stata trasformata in «un'imposta
personale progressiva di massa per finanziare la guerra e, successivamente, il
cosiddetto "big government". Quarant'anni dopo Reagan cambia rotta: abbassa
drasticamente le tasse personali in modo da far impennare i consumi e, quindi,
il Pil. Vuole dare una spinta immediata, è l'era dell'edonismo reaganiano».
Nel corso degli anni successivi,
e quindi sotto le amministrazioni Bush sr., Clinton, Bush jr. e Obama,
l'aliquota a carico della categoria dei super-ricchi ha altalenato costantemente
ma seguendo comunque una traiettoria tendenzialmente discendente. La vera e
propria esplosione delle disuguaglianze fiscali si è tuttavia verificata per effetto
delle misure adottate dall'amministrazione Trump, e in particolare con il Tax
Cuts and Jobs Act (Tcja) del 2017, una riforma fiscale paragonabile a quella
introdotta da Reagan nel 1981 che implica sgravi netti per 1.500 miliardi di
dollari entro un decennio e riduzioni generalizzate delle imposte sia
alle aziende che alle famiglie, sia ai super-ricchi che a quel che resta della middle-class. In concreto, il Tcja
prevede il taglio dell'aliquota sul reddito d'impresa dal 35 al 21% e una
sostanziale limitazione alle spese deducibili (tranne che per le piccole aziende
e le società immobiliari), in specie
per quanto riguarda le retribuzioni dei dirigenti superiori al milione di dollari.
Per le aziende statunitensi ad alta redditività controllate da società
straniere è contemplata un'imposta minima del 10%, in conformità a quell'approccio
territoriale alla tassazione di cui Trump aveva sottolineato con forza la necessità
in campagna elettorale. La riforma elaborata a suo tempo dall'amministrazione
Bush jr. rendeva i redditi generati all'estero tassabili soltanto a rimpatrio avvenuto,
e ciò rappresentò un notevole incentivo per le imprese continuare a parcheggiare
i propri utili all'estero. Quella introdotta dall'amministrazione Trump abolisce
invece questo sistema (worldwide)
rendendo molto meno conveniente per le aziende lasciare i propri utili
all'estero, grazie anche a uno scudo fiscale assai blando che prevede
un'aliquota tra il 15,5 e l'8%.
Lo
studio di Zucman e Saez rimarca con forza gli effetti distruttivi della riforma
fiscale trumpiana, e offre ulteriori argomenti a chi, come la storica esponente
liberal del Partito Democratico Elizabeth
Warren, invoca l'introduzione di una tassa patrimoniale modellata sul calco di
quella promossa dal Massachusetts di inizio '800, rivolta cioè a reperire le
risorse necessarie a finanziarie misure che attenuino le disparità sociali.
Nessun commento:
Posta un commento