giovedì 16 gennaio 2020

Fracking: realtà o illusione?



Recentemente, gli Stati Uniti hanno sorpassato l'Arabia Saudita raggiungendo il primo posto nella graduatoria dei principali Paesi esportatori di petrolio. Si tratta di un risultato notevole ma allo stesso tempo prevedibile, dal momento che la scalata dei ranghi della classifica dei maggiori fornitori mondiali di greggio da parte degli Usa andava protraendosi ormai da parecchi anni.
In particolare, da quanto l'amministrazione Obama diede il via libera all'estrazione di petrolio non convenzionale, realizzabile grazie alla messa a punto di metodi di estrazione particolarmente innovativi quali l'hydrofracking e l'horizontal drilling. 

I quali indussero numerosi esperti del settore a pronosticare che, nell'arco di pochi anni, il tight-oil e lo shale-gas estratti in America settentrionale sarebbero riusciti a farsi progressivamente strada nel mercato mondiale, così come altre particolari forme non convenzionali di "oro nero" – tra le quali figurano anche il petrolio delle sabbie bituminose della Cina, l'extra-heavy-oil del Venezuela e il pre-salt oil del Brasile – e gas naturale. L'epicentro di questa "rivoluzione" rimaneva però saldamente nel cuore degli Stati Uniti, che dal marzo 2019 sono arrivati a produrre 12 milioni di barili al giorno (1,6 milioni di barili in più rispetto all'anno precedente) e ad incrementare drasticamente (+90% rispetto al 2018) le proprie quote di mercato. Soprattutto verso l'Europa, in un'ottica di potenziamento del settore e di riduzione della dipendenza energetica del "vecchio continente" da un avversario geopolitico come la Russia.
Se l'impulso originario alla crescita dell'industria dello shale venne dall'amministrazione Obama, il vero punto di svolta si è ottenuto tuttavia sotto il governo Trump, che grazie allo «straordinario lavoro» del segretario all'Energia Rick Perry è riuscito a moltiplicare gli sforzi per agevolare gli investimenti necessari a massimizzare la produzione di idrocarburi non convenzionali. I migliaia di nuovi giacimenti di idrocarburi non convenzionali attivati in Pennsylvania, Texas, Kansas, Oklahoma, North Dakota e Colorado con il supporto di Washington, sostengono i cosiddetti fracker, sarebbe inesorabilmente destinato a trasformare stabilmente gli Stati Uniti nel principale fornitore mondiale di idrocarburi. «Siamo solo nei primi quindici anni di un processo che sarà lungo 150 anni», dichiarò Steve Müller, responsabile della Southwestern Energy, sorvolando sui gravissimi effetti provocati da tecniche estrattive che prevedono l'infiltrazione nel sottosuolo, e quindi nelle falde acquifere che lo attraversano, di notevoli quantità di sostanze (si parla di oltre 200 litri di una miscela contenente circa 600 agenti chimici per ciascun pozzo) che sono alla base di un pesantissimo inquinamento ambientale e dei numerosi fenomenici sismici registrati nelle aree interessate da fatturazioni idrauliche degli scisti

La scarsa attenzione generale sulla pericolosa correlazione tra estrazione di idrocarburi non convenzionali e terremoti è probabilmente dovuta alla ragguardevole incidenza della "rivoluzione dello shale" sul Prodotto Interno Lordo statunitense; «The Economist» stimò infatti che gli oltre 20.000 nuovi impianti costruiti in tutto il territorio nazionale avevano contribuito a far crescere l'economia nazionale di ben 76,9 miliardi di dollari dal 2010 al 2014.
I problemi sorsero nel momento in cui, in forza di motivazioni squisitamente geopolitiche (limitare le entrate di avversari del calibro di Russia e Iran), gli Usa decisero di colludere con l'Arabia Saudita per affossare il prezzo del petrolio. Per i fracker, consapevoli che lo sfruttamento dei giacimenti di idrocarburi non convenzionali, tendenti ad esaurirsi molto rapidamente, richiedeva un numero elevatissimo di trivellazioni e quindi un break-even piuttosto elevati, la situazione cominciò a farsi veramente complessa. L'amministratore delegato di Conoco-Phillips, Ryan Lance, cercò allora di fornire solide assicurazioni agli investitori, dichiarandosi convinto che «il sistema sopravviveva col barile a 100 dollari ma è in grado di sopravvivere anche a 50-60 dollari. E c'è ancora spazio per migliorare, competendo con qualsiasi altro progetto estrattivo nel mondo». Sencondo Lance, i progressi tecnologici che venivano progressivamente realizzati avrebbero permesso di spostare la soglia di remunerazione dello shale-gas verso il basso del 25% nel solo 2015, mentre «nelle aree migliori si riesce ad avere un ritorno del 10% sul capitale investito anche con il petrolio a 40 dollari».
Le cose sono andate in maniera ben differente. La forte riduzione dei margini di profitto legati alla produzione di tight-oil e shale-gas si rivelò infatti un colpo durissimo per le piccole e medie compagnie Usa che avevano investito nel settore, e finì per produrre sensibili contraccolpi anche sull'andamento in Borsa dei giganti di Big Oil, i quali si videro costretti sia a "tosare" i propri azionisti che a rinunciare a numerosi investimenti già predisposti.  Secondo Bloomberg, il debito accumulato da metà delle compagnie coinvolte nel campo della "rivoluzione dello shale" inserite nel suo indice era arrivato a toccare il 40% del loro intero valore. Un'altra analisi realizzata sui bilanci di 60 società petrolifere quotate negli Stati Uniti certificò che alla fine del giugno 2014 i debiti ammontavano a 190,2 miliardi di dollari, in crescita di 50 miliardi dalla fine del 2011. Dal 2010 al 2014 la massa debitoria raddoppiò, mentre le entrate aumentarono di appena il 5,6%. Il  trend negativo si è protratto regolarmente fino ad oggi, come rilevato dallo stesso Wall Street Journal. Va inoltre sottolineato che una quota non irrilevante di queste società spende almeno il 10% del fatturato solo per pagare gli interessi sul debito, che nella maggior parte dei casi viene stato classificato dalle principali agenzie di rating a livello junk, ("spazzatura"), a causa degli alti rischi di insolvenza e dell'incapacità della stragrande maggioranza delle aziende di settore a generare profitti, come illustrato nel dettaglio dalla specialista Bethany McLean. La quale non ha mancato di rilevare che il tracollo rovinoso e generalizzato del settore è stato evitato soltanto a causa della sovrabbondante offerta di liquidità a costo nullo presente sui mercati del credito grazie alla politica monetaria iper-accomodante portata avanti dalla Federal Reserve. È in virtù di questo sostegno finanziario garantito dalla Banca Centrale Usa che il comparto del fracking è riuscito a sopravvivere al periodo di prezzi molto bassi protrattosi dal 2014 al 2015, e a rilanciare su larga scala la produzione attraverso una riduzione progressiva dei costi e il miglioramento delle rese estrattive.
Nel novembre del 2015, lo Houston Chronicle rivelò tuttavia che ben 37 società statunitensi operanti nel settore degli idrocarburi non convenzionali erano finite in bancarotta tra l'agosto e l'ottobre precedenti, con un debito complessivo che superava i 13 miliardi di dollari. Nel mesi successivi si registrò il medesimo andamento, per effetto della revisione in negativo delle aspettative di Goldman Sachs sulla quotazione del petrolio, del rialzo dei tassi di interesse da parte della Federal Reserve e dell'ingresso sul mercato dell'Iranian Light conseguente alla revoca delle sanzioni a Teheran, che affossò il prezzo del Brent e del West Texas Intermediate al di sotto dei 30 dollari per barile; un livello che era stato raggiunto l'ultima volta nel lontano 2003.
Ma i problemi non si riducevano certamente alla sola industria operante nel settore dell'estrazione di petrolio non convenzionale; nel corso degli anni, le banche statunitensi hanno infatti cartolarizzato sistematicamente i debiti contratti dai fracker, emettendo Credit Defalut Swap per i quali tali debiti fungono da collaterali. Qualora il prezzo del petrolio dovesse stabilizzarsi su quotazioni troppo basse, le compagnie petrolifere più esposte finirebbero sull'orlo del baratro e si profilerebbe quindi il rischio concreto di una nuova crisi finanziaria nel sistema bancario degli Stati Uniti, visto il volume più che ragguardevole raggiunto dalla "bolla dello scisto". Inoltre, come notava l'economista Jacques Sapir in un articolo del gennaio 2015, «in maniera diretta e indiretta, per gli Stati Uniti l'economia del petrolio e del gas di scisto rappresenta, anche per via dell'influenza su consumi e redditi delle famiglie che vi lavorano, circa la metà dei posti di lavoro creati negli ultimi tre anni. Se ci sarà, come previsto, un'ondata di fallimenti, si tradurrà in licenziamenti in massa che genereranno un effetto moltiplicatore sui servizi. Data la grande flessibilità del mercato del lavoro negli Stati Uniti, una parte dei lavoratori licenziati troverebbe lavoro 6-9 mesi dopo il licenziamento a stipendio ridotto. I salari nell'industria dello scisto sono infatti superiori, a pari qualifica, del 15-25% a quelli che caratterizzano gli altri settori dell'economia. Tra disoccupati "netti" e personale costretto ad accettare un posto di lavoro dalla retribuzione più bassa, si potrebbe verificare un calo dell'1-2% della massa salariale totale negli Stati Uniti, e un più basso (2-3%) consumo delle famiglie, a causa della mutazione nel risparmio che accade regolarmente in presenza di significative difficoltà economiche. E, naturalmente, quando il prezzo del petrolio risalirà, assisteremo ad un'ulteriore contrazione dei consumi».
Non a caso, le aziende operanti nel settore dei servizi petroliferi come Halliburton e Schlumberger annunciarono tagli al personale, così come fornitori di prodotti chimici e attrezzature necessarie al fracking, imprese siderurgiche ed edili, nonché strutture ricettive che beneficiavano della "rivoluzione dello shale". Eventuali ristrutturazioni del debito delle società attive in questo campo sono suscettibili di travolgere i comparti ad alto rendimento del mercato Usa, specialmente alla luce dell'ulteriore crollo del prezzo del petrolio registrato nelle ultime settimane che rende ancor più complicata l'attività dei fracker, che per limitare il più possibile l'impatto del rapido esaurimento dei giacimenti e mantenere stabile la produzione sono obbligati a profondere un flusso costante di investimenti in ricerca e trivellazioni. Il che implica necessariamente la contrazione di debiti. Un meccanismo talmente pericoloso che già nel 2009 aveva indotto, come testimoniano numerosi documenti scovati e pubblicati dal New York Times, alcuni esperti e dipendenti delle aziende di punta di Big Oil a ravvisare nella "rivoluzione dello shale"  un nuovo, gigantesco schema Ponzi. Tra di essi spicca l'autorevole International Energy Agency, che all'interno del suo World Energy Investment Outlook del 2014 vaticinò un crollo verticale della produzione di idrocarburi non convenzionali negli Stati Uniti e lo scoppio della relativa bolla.

mercoledì 8 gennaio 2020

Erdoğan gioca la carta libica


Mentre l'Iran sferra la sua rappresaglia contro gli Stati Uniti per l'uccisione del generale Qassem Soleimani, prosegue la marcia a tappe forzate verso Tripoli delle forze libiche al comando del generale Khalifa Haftar. Il quale, beneficiando dell'appoggio di Egitto, Emirati Arabi Uniti e soprattutto Russia, sta letteralmente travolgendo le raccogliticce milizie facenti capo al tripolino Fayez al-Serraj, sostenuto invece da Unione Europea (con l'eccezione della Francia che, a dispetto delle dichiarazioni di Macron, pende palesemente a favore di Haftar), Qatar e, soprattutto, Turchia. Per il presidente Recep Tayyp Erdoğan, la crisi libica si sta rivelando una vera e propria ancora di salvezza perché gli permette di uscire dal vicolo cieco in cui era piombato sul fronte interno, che lo vede costretto a far fronte a una complessiva perdita di popolarità dovuta in buona parte al protrarsi di una situazione economicamente critica contrassegnata – nonostante la parziale ripresa registrata nella seconda metà del 2019 – da un calo prolungato di tutti i principali indicatori, a partire da Pil, produzione industriale e reddito pro capite. Un contributo assai considerevole alla debacle l'hanno indubbiamente apportato gli Usa, che con i loro dazi hanno incrementato fortemente le pressioni sulla già deficitaria bilancia commerciale turca, con conseguente inabissamento della lira e insorgere di devastanti fiammate inflattive.
Un primo tentativo di uscire dall'empasse si verificò lo scorso settembre con le altisonanti dichiarazioni di Erdoğan attestanti l'intenzione di dotare la Turchia dell'arma atomica. «Alcuni Paesi hanno missili nucleari, ma l'Occidente insiste che noi non possiamo averli. Ciò è inaccettabile», denunciò il leader turco evocando la minacciosa presenza dell'arsenale nucleare israeliano. A detta di Manlio Dinucci, quello del presidente turco si configura come un «progetto non facile, ma non irrealizzabile. La Turchia dispone di avanzate tecnologie militari, fornite in particolare da aziende italiane, soprattutto la Leonardo. Possiede depositi di uranio. Ha esperienza nel campo dei reattori di ricerca, forniti in particolare dagli Usa. Ha avviato la realizzazione di una propria industria elettronucleare, acquistando alcuni reattori da Russia, Giappone, Francia e Cina. Secondo alcune fonti, la Turchia potrebbe essersi già procurata, sul "mercato nero nucleare", centrifughe per l'arricchimento dell'uranio. L'annuncio di Erdoğan che la Turchia vuole divenire una potenza nucleare, interpretato da alcuni come un semplice gioco al rialzo per avere maggiore peso nella Nato, non è quindi da sottovalutare».
Un ulteriore sforzo finalizzato ad aggirare la congiuntura negativa si verificò a poche settimane di distanza con l'operazione militare Primavera di Pace, condotta nel nord-est della Siria al fine di ricacciare indietro i peshmerga e insediare forzatamente centinaia di migliaia di profughi siriani provvisoriamente ospitati in Turchia nella striscia di territorio profonda circa 30 km e lunga 480 km amministrata dai kurdi. Per l'area da "ripopolare", Ankara aveva già in serbo un ambizioso progetto urbanistico da circa 27 miliardi di dollari implicante la costruzione di abitazioni, scuole, moschee ed ospedali alla cui realizzazione avrebbe dovuto contribuire anche l'Unione Europea. Secondo i calcoli di Erdoğan, respingere i kurdi a distanza di sicurezza dal confine turco e stimolare l'arrancante economia nazionale con un grande programma keynesiano da applicare nella zona di frontiera con la Siria avrebbe da un lato ricompattato il Paese sotto la bandiera del patriottismo e dall'altro innescato una ripresa economica in grado di placare i serpeggianti malumori interni. Senonché, la spedizione nel nord-est della Siria, concordata con Mosca in cambio del via libera alla liberazione di Idlib dai gruppi jihadisti ivi annidati, produsse l'inaspettato effetto di riproporre l'irrisolta questione islamista. Il governo di Ankara, in altre parole, si trovò a dover scegliere: scaricare e abbandonare al loro destino le milizie jihadiste come il fronte al-Nusra, armate, addestrate, finanziate e sfruttate per anni dalla stessa Turchia come forza d'urto per rovesciare il governo di Bashar al-Assad, e quindi condannare automaticamente il Paese a subire un'ondata di attentati terroristici analoga a quella del 2014? Oppure inanellare l'ennesimo voltafaccia violando gli accordi raggiunti con Putin – che vanno ben oltre la questione siriana, poiché riguardano la fornitura dei sistemi anti-missile S-400, la realizzazione del Turkish Stream e molto altro ancora – e perdere così l'unica sponda su cui Ankara può contare per controbilanciare la montante pressione statunitense?
La soluzione al dilemma si è presentata con gli sviluppi della crisi libica, che ha visto al-Serraj, rimanere a secco di armi, effettivi e iniziativa militare soprattutto in seguito alla allo schieramento di ex specnatz russi, di droni emiratini e di caccia egiziani a supporto dell'esercito cirenaico agli ordini di Haftar intento a cingere d'assedio la capitale. Quale occasione migliore di riciclare come fanteria a disposizione di al-Serraj i gruppi jihadisti impiegati in Siria e divenuti oramai sempre più scomodi e ingombranti? Di qui la decisione di riattivare la stessa ratline di cui, a partire dal settembre 2012, la Cia si era servita per trasferire missili anticarro dalla Libia ormai "liberata" da Muhammar Gheddafi alla Siria in fiamme attraverso navi battenti bandiera turca. Il contro-flusso di combattenti islamisti innescato da Ankara va da un lato a risollevare, seppur in maniera molto limitata e parziale, le sorti del conflitto libico offrendo allo stesso tempo a Erdoğan la possibilità di ritagliarsi un ruolo di grande rilievo geopolitico nella sponda sud del Mediterraneo. E di inserirsi pertanto nel "grande gioco" energetico che vede nel quadrante orientale del Mare Nostrum, che ospita giacimenti del calibro di Afrdoite, Tamar, Leviathan, Karish, Tanin e Zohr, uno dei principali teatri di scontro. Dal quale la Turchia era stata originariamente tagliata fuori per mezzo dell'accordo siglato di recente tra Israele, Grecia e Cipro e benedetto dagli Usa per la realizzazione del gasdotto EastMed, che ambisce a soddisfare il 10% circa del fabbisogno energetico europeo. Un progetto da 6 miliardi di euro che beneficia del sostegno politico statunitense perché va ad alleggerire la dipendenza del "vecchio continente" dalle forniture russe, e che indebolisce giocoforza la posizione turca in quanto delinea un nuovo asse marittimo formato da avversari vecchi (Grecia e Cipro) e nuovi (Israele ed Egitto) destinato a vanificare la vecchia e mai sopita ambizione di Erdoğan ad accreditare la Turchia al rango di hub energetico di riferimento a cavallo tra Asia ed Europa, come sottolineato dal presidente dell'Istituto di Studi Strategici di Gerusalemme Efraim Inbar. È in tale contesto che si inseriscono il frenetico attivismo della marina militare turca – spintasi addirittura a sconfinare nello specchio di mare che Eni e Totale avevano in concessione al largo di Cipro per consentire alla nave di perforazione Yavuz di procedere all'esplorazione del pozzo di Guzelyurt-1 – e l'intesa tra Ankara e il governo di Tripoli che ridisegna la geografia energetica del Mediterraneo in maniera fortemente confliggente con quella fondata sui confini marittimi stabiliti da Israele, Cipro, Grecia ed Egitto, perché concepita con lo scopo palese di sabotare la realizzazione del gasdotto EastMed. Nello specifico, l'accordo attribuisce ad Ankara la giurisdizione su un'ampissima porzione di Mediterraneo orientale rivendicata da Grecia e Cipro che estenderebbe di oltre il 30% i confini della piattaforma continentale turca.
La concretizzazione dell'ambizioso disegno strategico di Erdoğan appare tuttavia gravata da due pesantissime incognite strettamente connesse tra di loro, costituite dalla precarietà di al-Serraj e, soprattutto, dal fatto che, come evidenziato dallo storico Soner Cagaptay, per la Turchia «sarà assai difficile sostenere una presenza militare in Libia senza ottenere una sorta di via libera da parte di Vladimir Putin». L'incontro di Istanbul tra Erdoğan e il presidente russo in occasione della cerimonia inaugurale del gasdotto Turkish Stream – rispetto al quale l'EastMed rappresenta la principale e più insidiosa alternativa – potrebbe riservare qualche sorpresa in proposito, come ad esempio una tregua imposta dall'alto destinata a porre le basi per una spartizione de facto della Libia tra le regioni di Tripolitania e Cirenaica.

martedì 7 gennaio 2020

Droni, bombe, navi, ecc.: i pericoli della centralità che riveste l'Italia rispetto alla strategia militare degli Usa

Che il recente attacco aereo statunitense contro l'aeroporto di Baghdad responsabile della morte del generale Qassem Soleimani sia stato effettivamente condotto con droni decollati da Sigonella è altamente improbabile. La capitale irachena dista infatti dalla base siciliana a disposizione degli Stati Uniti oltre 2.200 km, mentre il modello di drone Reaper, armabile con missili e bombe a guida laser e satellitare, impiegato per il raid ha un raggio d'azione di 1.850 km. Le voci circolate in questi giorni in merito a questa possibilità, così come la notizia relativa alla decisione statunitense di ridispiegare alcune unità della 173° brigata aviotrasportata di stanza a Vicenza per rafforzare le difese delle ambasciate statunitensi situate nelle capitali del Medio Oriente ritenute maggiormente esposte al pericolo di rappresaglia iraniana, hanno tuttavia avuto l'effetto di riaprire gli interrogativi circa l'uso dello spazio aereo italiano e delle basi distribuite nella penisola. Nonché di evidenziare la centralità dell'Italia rispetto alla strategie statunitensi.
A prescindere dal fatto che sia stata o meno la base di partenza dei droni tramite i quali è stato effettuato l'attacco in Iraq, Sigonella rimane la principale base di lancio per operazioni del genere non solo perché ospita la Joint Tactical Ground Station (Jtags), una delle cinque stazioni satellitari che opera nell'ambito del cosiddetto scudo anti-missili e che adempie alle funzioni sia difensive che offensive, ma anche per via della sua prossimità a Niscemi (Caltanissetta), dove si trova il Mobile User Objective System (Muos). Vale a dire un sistema di comunicazioni satellitari – pienamente operativo dalla scorsa estate – sviluppato dalla Lockheed Martin per conto della Us Navy, che si compone di quattro stazioni terrestri ciascuna delle quali collegata a sua volta un satellite in orbita geostazionaria, e connesse allo stesso tempo l'una all'altra per tramite di una rete terrestre e sottomarina composta da cavi in fibra ottica. Assieme a quelle impiantate nella Hawaii, in Virginia e in Australia, l'installazione di Niscemi consente agli Usa di trasmettere a frequenza ultra-alta messaggi vocali, filmati e cablogrammi in maniera criptata e simultanea integrando così in un'unica rete di comando e comunicazioni facente capo al Pentagono tutte le unità e i mezzi da combattimento, droni compresi.
Proprio a Sigonella, non a caso, è recentemente atterrato dopo un volo di 22 ore partito dalla base aerea di Palmdale, in California, il primo drone del sistema Alliance Ground Surveillance (Ags) della Nato. Trattasi di una versione potenziata del modello Global Hawk, in grado di volare per 16.000 km a 18.000 metri di altezza e pilotabile da remoto. Assieme ad altri quattro velivoli dello stesso tipo e con il supporto di numerose stazioni terrestri, il drone in oggetto permetterà all'Alleanza Atlantica di monitorare vastissime aree terrestre e marittime ricomprese tra Mediterraneo, Medio Oriente, Africa settentrionale e Mar Nero, trasferendo agli operatori disseminati in oltre venti postazioni i dati raccolti da analizzare e immettere successivamente nella rete criptata facente capo al Comando Supremo Alleato in Europa. Il sistema Ags, che diverrà operativo entro il prossimo giugno, sarà integrato con l'hub di Direzione Strategica per il Sud, il centro di spionaggio focalizzato su Medio Oriente e Africa situato a Lago Patria, nei dintorni di Napoli, dove ha peraltro sede – presso Capodichino – il Comando delle Forze navali Usa in Europa da cui dipende la Sesta Flotta, con base a Gaeta, che, come puntualizzato dalla vice-ammiraglio Usa Lisa Franchetti, opera «dal Polo Nord al Polo Sud». I costi di realizzazione del mantenimento del sistema Ags – sviluppato in buona parte da Northrop Grummann – sono stati sostenuti da ben quindici membri dell'Alleanza Atlantica. Tra cui l'Italia, che oltre a contribuire con oltre 200 milioni di euro e a fornire la principale base operativa, ha recentemente stanziato circa 250 milioni di euro addizionali per l'acquisto di uno stormo di droni Reaper e Predator. Compresi gli altri velivoli senza pilota già acquistati e quelli di cui si prevede la dotazione, la spesa complessiva per i droni militari sostenuta dall'Italia si attesta attorno al miliardo e mezzo di euro, a cui vanno sommato i costi operativi e di manutenzione.
Non va inoltre dimenticato l'esito prodotto dall'incontro dello scorso ottobre tra il primo ministro Giuseppe Conte e il segretario di Stato Mike Pompeo, recatosi a Roma per richiamare l'attenzione del primo ministro in merito al ritardo sui pagamenti dei caccia stealth F-35, fabbricati dalla Lockheed Martin, già acquistati e in larghissima parte consegnati all'Italia, ed esercitare forti pressioni sul suo interlocutore affinché si adoperasse per sbloccare un ulteriore ordine d'acquisto. La vicenda era divenuta particolarmente spinosa quantomeno a partire dal 2012, quando l'Italia decise di rivedere i termini dell'ordine da 131 velivoli effettuato nel 1998 dal governo Prodi, limitando gli acquisti a "soli" 90 aerei. Di cui 30, da ripartire equamente tra Marina e Aeronautica, nella versione B a decollo corto e atterraggio convenzionale, e i restanti 60 nella versione A a decollo e atterraggio convenzionale, su cui possono essere montate le nuove bombe atomiche B61-12. L'Italia si aggiudicò allora un ruolo non secondario nella realizzazione fisica degli aerei, visto che i processi di ammodernamento della fusoliera, di costruzione delle ali, di assemblaggio delle componenti e del collaudo dei modelli destinati a Italia e Olanda si sarebbero effettuati presso il complesso industriale piemontese di Faco di Cameri, appartenente al gruppo Leonardo-Finmeccanica. Le cui linee di produzione presenti negli stabilimenti di Foggia, Nola e Venegono si sarebbero occupate anche di fabbricare le ali per gli F-35 assemblati negli Stati Uniti.
La situazione, già surriscaldatasi per effetto della revisione del contratto d'ordine, andò complicandosi ulteriormente con l'insediamento del governo formato da Lega e Movimento 5 Stelle. La compagine grillina si era infatti sempre espressa in maniera fortemente critica nei confronti del progetto, ed aveva pertanto messo seriamente in conto la possibilità di congelare gli ordinativi. Senonché, una volta presso atto dell'entità delle penali che si sarebbero dovute pagare in caso di blocco dell'ordine, il governo decise di tirare dritto e di onorare i termini del contratto. Lo scorso giugno, il ministro della Difesa Elisabetta Trenta (del Movimento 5 Stelle) riferì che 13 dei 14 aerei consegnati da Lockheed Martin erano stati interamente finanziati, e che altri 13 sarebbero stati acquistati entro il 2022. Senonché, con la caduta del governo "giallo-verde" e la nascita dell'esecutivo costituito da Movimento 5 Stelle e Partito Democratico, i grillini riproposero di rinegoziare il programma di acquisto degli F-35, incassando una sonora bocciatura da parte del ministro della Difesa Lorenzo Guerini che lasciava chiaramente presagire la piega che avrebbero preso gli eventi. Non a caso, dopo il suo colloquio con il segretario di Stato, il premier Conte non si limitò ad assicurare che l'Italia avrebbe tenuto fede ai patti in relazione agli F-35, ma si spinse a raccogliere l'esortazione di Pompeo e del segretario della Nato Jens Stoltenberg ad incrementare gli investimenti nella difesa collettiva, assumendo l'impegno ad aumentare le spese militari di circa 7 miliardi di euro a partire dal 2020. Nel 2019, gli stanziamenti bellici erano rimasti fermi ai livelli dell'anno precedente, cioè a 25 miliardi di euro. Di cui 21 rientrano nel bilancio per la Difesa e 3 in quello per lo Sviluppo Economico, a cui va aggiunto un miliardo per il finanziamento delle missioni all'estero. Aggiungere a questa cifra 7 miliardi in più, pari a quasi mezzo punto di Pil, significa aumentare le spese militari di circa il 30% in un solo colpo.
Tra di esse rientrano gli investimenti necessari a sostenere il massiccio piano di riorganizzazione delle infrastrutture di Camp Darby, vale a dire il più grande arsenale a disposizione di Washington situato al di fuori dei confini statunitensi. La base, che sorge tra Pisa e Livorno e che in passato – come acclarato dalle inchieste dei giudici Felice Casson e Carlo Mastelloni – ha funto da centro nevralgico della rete atlantica costituita dalla Cia e dal Sifar nel quadro dell'Operazione Gladio, si compone di ben 125 bunker contenenti di sicuro oltre un milione di proiettili di artiglieria, bombe per aerei e missili, carri armati, veicoli e altri materiali militari, e forse, sostengono alcuni, ordigni nucleari. Come dichiarato dal colonnello Erik Berdy, a capo dello Us Army Italy, Camp Darby ricopre un ruolo chiave per la strategia militare statunitensi, perché consente il rifornimento in tempi rapidi delle forze terrestri e aree statunitensi operanti nei teatri europeo, africano e mediorientale. Non a caso, la base – finita peraltro al centro della tragica vicenda della Moby Prince – è stata ampiamente utilizzata dagli Usa durante le guerre in Iraq, Jugoslavia, Libia, Afghanistan, Siria e Yemen. Il recente progetto di riorganizzazione di Camp Darby scaturisce dal fatto che il volume sempre crescente di armi in transito per la base aveva reso insufficiente il vecchio collegamento via canale e via strada con il porto di Livorno e l'aeroporto di Pisa. Nel dettaglio, il piano prevede la realizzazione di una nuova linea ferroviaria concepita per collegare, attraverso un punte metallico girevole da costruire sul Canale dei Navicelli, la stazione di Tombolo (tra Livorno e Pisa) a un nuovo terminale di carico e scarico alto quasi 20 metri e composto da quattro binari da 175 metri l'uno in grado di accogliere complessivamente ben 36 vagoni  e di permettere il transito di due convogli al giorno che collegano la base al porto. La struttura sarà inoltre connessa al deposito di munizioni con strade dedicate ai grandi autocarri, su cui armi, munizioni e materiale militare di vario genere in arrivo o in partenza – sempre tramite rotaia – verranno caricati tramite appositi carrelli sposta-container. È interessante notare che, in base a un accordo specifico siglato tra Washington e Roma, circa 34 ettari inutilizzati di cui si componeva la base (pari a circa il 3% della sua estensione complessiva) sono stati restituiti al Ministero della Difesa italiano affinché vi installasse il Comando delle Forze Speciali dell'Esercito (Comfose, che dal 2014 riunisce il 9° Reggimento d'assalto Col Moschin, il 185% Reggimento acquisizione obiettivi Folgore, il 28° Reggimento comunicazioni Pavia e il 4° Reggimento alpini paracadutisti Ranger). Vale a dire il centro di addestramento che sforna le forze tradizionalmente impiegate nelle operazioni coperte condotte in teatri particolarmente complessi come quello afghano. L'intesa risulta del tutto conforme con quanto annunciato durante la cerimonia inaugurale del Comfose del 2014, quando le autorità presenti dichiararono che il Comando avrebbe mantenuto un «collegamento costante con lo Us Army Special Operation Command». Di concerto con il quale, ha spiegato il colonnello Berdy, si svolgevano già regolari corsi d'addestramento congiunti di militari statunitensi e italiani. Il trasferimento del Comfose a ridosso di Camp Darby risulta funzionale a realizzare un maggiore grado di integrazione tra le forze speciali italiane e quelle statunitensi, favorendo l'interoperabilità in operazioni coperte organizzate e condotte dagli Usa.
Le basi di Aviano e Ghedi costituiscono invece due tasselli fondamentali della strategia nucleare del Pentagono, che vi schiera non solo decine di caccia ma anche e soprattutto le bombe nucleari B61, che a partire da quest'anno saranno sostituite dalle B61-12, ordigni che offrono la possibilità di adeguare la potenza dell'esplosione al tipo di obiettivo da colpire, dal momento che i suoi ideatori hanno pensato di approntarne differenti versioni che vanno da 0,3 kilotoni a 50 kilotoni (pari ad oltre tre volte la potenza della bomba sganciata su Hiroshima). La bomba con la potenza massima è in grado di radere al suolo un'intera città, mentre quella minima si adatta a distruggere un'area più limitata, provocando una radioattività maggiormente contenuta. La B61-12 è inoltre in grado di penetrare in profondità per distruggere i bunker dei centri di comando e altre strutture sotterranee del nemico. A differenza delle ormai obsolete B61-4, che si sganciano in verticale sull'obiettivo, le B61-12 possono essere lanciate a circa 100 km ed essere teleguidate sul bersaglio attraverso un sistema satellitare, e risultano pienamente compatibili non solo con il velivolo B-2 Spirit, ma anche con gli F-16, i Tornado Pa-200 e gli F-35.
Altre B61-12 saranno inoltre trasferite presso la base di Aviano, che i lavori di ampliamento attualmente in corso per attrezzarla ad ospitare la nuova tipologia di bomba rendono di fatto la candidata perfetta ad accogliere le circa 50 testate atomiche che gli Usa custodiscono attualmente presso la base turca di Incirlik. Le recenti tensioni tra gli Stati Uniti e il presidente Recep Tayyp Erdoğan – reo di aver concordato con la Russia la costruzione del gasdotto Turkish Stream oltre che di aver ordinato a Mosca i sistemi anti-missile S-400 – avrebbero infatti indotto Washington a valutare la possibilità di ridislocare le proprie bombe in un Paese ritenuto maggiormente affidabile. E la scelta potrbbe verosimilmente ricadere proprio su Camp Darby come suggerito da un'analisi dell'autorevole Bulletin of Atomic Scientists e confermato dal generale a riposo Chuck Wald della Us Air Force in una intervista a Bloomberg. Dal canto suo, il coordinatore nazionale dei Verdi Angelo Bonelli, ha colto l'occasione per richiedere al governo la reale consistenza della notizia e di sottoporre immediatamente la questione all'attenzione del Parlamento, perché l'Italia – in cui sono già stoccate oltre settanta ordigni atomici in violazione del Trattato di Non Proliferazione a cui il "bel Paese" aderisce – rischia di essere «trasformata nel maggiore deposito di armi nucleari d'Europa» e base avanzata delle forze nucleari Usa, che stanno peraltro preparandosi a schierarvi missili nucleari a gittata intermedia con base a terra identici in  tutto e per tutto agli euromissili eliminati con il Trattato Inf firmato nel 1987 da Stati Uniti e Unione Sovietica. Lo stesso trattato da cui l'amministrazione Trump si è recentemente ritirata e che ha costretto ad imprimere una forte accelerata al suo programma missilistico, la cui punta di lancia è costituita da missili ipersonici – in grado di sfuggire a qualsiasi sistema intercettore attualmente conosciuto, come affermato in un recente saggio di grande interesse e riconosciuto apertamente dallo stesso vicepresidente degli Stati Maggiori Riuniti John Hyten – che verranno inesorabilmente puntati contro l'Europa.
La pericolosa esposizione del "vecchio continente" determinata dalla centralità che la dottrina nucleare del Pentagono attribuisce a questo teatro strategico tende ora a aumentare con il recente raid aereo in Iraq, nonostante Trump abbia imposto il silenzio riguardo ai dettagli dell'operazione per evitare l'insorgere di problemi con i Paesi alleati schierati in prima linea nelle azioni militari condotte con i droni. A partire proprio dall'Italia, che oltre ad avere in Sigonella la principale piattaforma di lancio e centro strategico per le trasmissioni-guida dei veicoli senza pilota Usa mantiene contingenti militari in Iraq, Afghanistan, Libano e Corno d'Africa (dove imprese italiane sono al lavoro per ampliare le piste e gli hangar che ospitano i Reaper con cui gli Usa conducono le loro operazioni in Somalia, Yemen e Iraq) che l'assassinio di Soleimani ad opera degli Stati Uniti espone inesorabilmente al rischio di ritorsioni. Senza contare che l'escalation tra Stati Uniti ed Iran che si sta venendo a determinare «comporterà il trasferimento in Medio Oriente dei carri armati e delle munizioni stoccati nell'hub toscano di Camp Darby via Livorno e aeroscalo di Pisa. Le trasmissioni ai droni via Sigonella e Muos di Niscemi, la mobilitazione di tutte le maggiori installazioni Usa e Nato in Italia, l'allarme rosso nelle basi operative delle forze armate in Medio Oriente e Africa, sono la prova evidente che la frontiera italiana si è proiettata ormai a ridosso di Teheran e Baghdad».