venerdì 20 dicembre 2019

Le pericolose oscillazioni della Federal Reserve


Lo scorso novembre, il governatore della Federal Reserve Jerome Powell ha testimoniato al Congresso per la prima volta al Congresso dopo il terzo taglio consecutivo dei tassi di 25 punti base, finalizzato ad abbattere il costo del denaro e infondere fiducia su un mercato interbancario da cui stavano provenendo segnali fortemente preoccupanti. Obiettivo da considerarsi raggiunto, a detta di Powell, secondo cui «l'attuale posizione di politica monetaria rimarrà probabilmente inalterata fintantoché i dati relativi allo stato dell'economia saranno coerenti con il nostro outlook di crescita moderata e di robusto mercato del lavoro», oltre che di regolare andamento dell'inflazione. «Qualora dovessero emergere sviluppi tali da provocare un riesame sostanziale delle prospettive – ha aggiunto il governatore – prenderemmo naturalmente adeguate contromisure».
Contromisure che la stessa Fed non aveva esitato ad adottare solo poche settimane prima del pronunciamento di Powell. A cavallo tra la fine di ottobre e l'inizio di novembre, infatti, la Banca Centrale Usa varò l'ennesimo abbassamento dei tassi di – per la precisione, di un quarto di punto percentuale, spostando la banda di oscillazione dall'1,75%-2% all'1,5%-1,75% – nonostante il parere contrario espresso dagli economisti Ester L. George e Eric S. Rosengren, membri del board della Fed fermamente convinti che l'economia nazionale non avesse assolutamente bisogno di ulteriori stimoli. Secondo il loro parere, il consolidamento del trend positivo registrato dal mercato del lavoro, l'andamento "regolare" dell'inflazione, il ritmo di crescita registrato dal Pil (+1,9% annualizzato nel terzo trimestre, a fronte di un +2% del secondo trimestre e un +3,1% nel primo), la piega positiva che sembravano aver preso le trattative commerciali con la Repubblica Popolare Cinese e un più equilibrato calcolo dei rischi connessi alla prospettiva dell'Hard Brexit avrebbero suggerito di mantenere inalterata la politica monetaria portata avanti fino a quel momento.
Di diverso avviso era il governatore Jerome Powell, che di concerto con i suoi più stretti consiglieri e in piena sintonia con la Casa Bianca aveva ritenuto necessario aumentare le riserve a quota 1.500 miliardi di dollari, identificata come soglia critica da raggiungere per assicurare il corretto funzionamento dell'economia nazionale. Pertanto, l'espansione del bilancio della Federal Reserve sarebbe proseguito quantomeno fino al secondo trimestre del 2020. Lo stesso Powell chiarì tuttavia che l'allentamento dei tassi non era stato varato in conformità a una linea prestabilita, ma sulla base delle performance registrate nel trimestre precedente. La Fed ammise dunque di non avere in serbo una strategia operativa da seguire, segno (non troppo) implicito che sull'economia statunitense gravano incognite di notevole portata.
Nonostante i toni rassicuranti che caratterizzarono il comunicato stampa diramato dalla Federal Reserve, secondo cui i mercati finanziari non erano contrassegnati da squilibri eccessivamente preoccupanti, la realtà è che la combinazione tra azzeramento dei tassi e lancio dei programmi di Quantitative Easing all'indomani del crack di Lehman Brothers ha alimentato una crescita astronomica degli indici borsistici, trainata soprattutto dai buyback. Una peculiarità, quest'ultima, rimarcata a suo tempo da businessman di grido quali Larry Fink di Blackrock e il cosiddetto "oracolo di Omaha" Warren Buffett (che poi ritrattò), e rilevata nel complesso dal 78% dei gestori di fondi interpellati da Bank of America, secondo cui quella che riunisce le aziende statunitensi quotate in Borsa sarebbe la categoria d'investimento più sopravvalutata. L'aumento costante dei buyback è peraltro coinciso con un forte calo degli investimenti, diminuiti dell'1,5% da un trimestre all'altro e sostenuti soltanto dalla settore della proprietà intellettuale. Quelli connessi ai macchinari e alle strutture sono infatti crollati rispettivamente del 3,8 e del 15,3%.
Un ulteriore fattore di criticità è dato dall'aumento dei tassi sul mercato interbancario, che la Federal Reserve si ostina a imputare a ragioni tecniche quali il programma di 'normalizzazione monetaria' che era stato avviato lo scorso anno con la progressiva liquidazione dei titoli in bilancio (Quantitative Tightening) e la scelta dell'amministrazione Trump di finanziare la propria radicale politica fiscale con massicce emissioni di obbligazioni, che di fatto "assorbono" liquidità dal sistema riducendo la disponibilità di denaro in circolazione. In realtà, l'incremento dei tassi sul mercato interbancario a fronte di una politica monetaria iper-accomodante come quella portata avanti dalla Federal Reserve è un chiaro indice del calo di fiducia che gli istituti di credito ripongono nei confronti dei loro simili. Esattamente come accadde alla vigilia della crisi del 2008, quando le banche smisero di prestarsi denaro tra di loro in conseguenza del fallimento di due fondi d'investimento connessi a Bnp Paribas. Non a caso, la Fed si è recentemente vista costretta a incrementare costantemente le iniezioni di liquidità nel sistema intervenendo direttamente sul mercato dei repurchase agreement (repo) di tipo overnight, con lo scopo deliberato di fornire denaro a basso costo alle banche così da intensificare le pressioni al ribasso sui tassi.
Quantomeno fino a qualche settimana fa, quando Powell dichiarò ufficialmente conclusa la manovra correttiva sui tassi in atto ormai da svariati mesi, che aveva portato la Fed a sospendere il processo di normalizzazione monetaria imponendo un brusco stop ai programmi di Quantitative Tightening (Qt). I quali implicarono una forte riduzione  il credito bancario disponibile associato a un simultaneo incremento del livello di remunerazione garantito dai titoli obbligazionari, in parallelo alla riduzione del loro prezzo di vendita. Ciò produsse una serie effetti immediati.
Da un lato, la combinazione tra aumento dei tassi e "smobilitazione" delle riserve accumulate attraverso il Qe provocò una carenza di dollari di cui risentirono in primis i mercati emergenti – come la Turchia, l'Argentina e l'Indonesia – che per frenare la fuga di capitali innescata dalla politica restrittiva della Federal Reserve si videro costretti a "dissanguarsi" innalzando a loro volta i tassi di interesse. In precedenza, questi Paesi, bisognosi di attrarre denaro per soddisfare i criteri del Washington consensus, erano stati letteralmente sommersi dai capitali stranieri come conseguenza della politica monetaria espansiva condotta dalla Fed.
Allo stesso tempo, l'aumento del grado di redditività dei T-Bond, dovuto al rialzo dei tassi, determinò un massiccio trasferimento di capitali dai mercati azionari a quelli obbligazionari ponendo le basi per un colossale crisi borsistica. Non va infatti dimenticato che, grazie al fiume di liquidità reso disponibile dai programmi di Qe, l'indice Standard & Poor's 500 registrò una crescita superiore al 350 % a partire dal settembre 2008 (crack di Lehman Brothers). Il medesimo discorso può essere esteso al Dow Jones e al Nasdaq. La crescita esorbitante realizzata dai tre principali indici di Wall Street nell'arco del passato decennio rischia quindi di essere spazzata via dagli effetti generati dal credit crunch varato dalla Fed.
A ciò andava sommato il forte incremento del deficit federale, imputabile alla sinergia negativa scaturita dalla combinazione tra l'aumento delle spese militari e gli effetti diretti dell'entrata in vigore del Tax Cuts and Jobs Act. La radicale riforma fiscale elaborata dall'amministrazione Trump è infatti all'origine della caduta delle entrate tributarie, a cui il Dipartimento del Tesoro pensò bene di porre rimedio moltiplicando le emissioni di T-Bond. Il che non potrà che provocare un forte aumento degli oneri sul debito, che coniugandosi con gli effetti della guerra commerciale che gli Stati Uniti hanno dichiarato a Cina, Germania e Giappone, sta contribuendo a gettare i semi per un rialzo dei tassi "autonomo" vale a dire non direttamente controllabile dalla Federal Reserve.
Si tratta di un fenomeno potenzialmente devastante, tenuto conto che un decennio di tassi a zero ha provocato una colossale distorsione del mercato dei prestiti in tutti i settori dell'economia nazionale. Attualmente, il debito federale supera i 21,6 trilioni di dollari (più del doppio rispetto a quello registrato al momento della bancarotta di Lehman Brothers), quello societario a 15,5 trilioni e quello delle famiglie a 14 trilioni. Se a ciò si aggiunge l'incremento dei debiti scolastici, di quelli per l'acquisto di automobili e di quelli legati alle carte di credito, è facile concludere che gli Stati Uniti stanno letteralmente muovendosi su un campo minato. Non a caso, Peter Schiff, navigatissimo gestore di fondi, ha espresso l'opinione secondo cui «l'economia americana è in condizioni peggiori di quanto fosse dieci anni fa».
Anche perché la Federal Reserve si trova in una posizione molto più delicata rispetto al 2008, così come la situazione debitoria in cui versa il sistema-Paese. Powell non ha mancato di sottolineare questi fattori di criticità, ponendo enfasi sull'insostenibilità del debito accumulato dagli Stati Uniti ed esortando Casa Bianca e Congresso a mettere a punto politiche di bilancio meno estreme di quelle portate avanti finora. La presa di posizione del governatore della Fed si configura come una pubblica rivendicazione dell'indipendenza della Banca Centrale, ormai da anni nel mirino di Donald Trump per via della sua linea operativa giudicata eccessivamente rigida e sfavorevole al buon andamento dell'economia nazionale. Il tycoon newyorkese ha infatti ripetutamente invocato un drastico abbassamento dei tassi, che a suo dire avrebbe garantito un incremento dei listini di un ulteriore 25%.

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