Lo scorso novembre, il
governatore della Federal Reserve Jerome Powell ha testimoniato al Congresso
per la prima volta al Congresso dopo il terzo taglio consecutivo dei tassi di
25 punti base, finalizzato ad abbattere il costo del denaro e infondere fiducia
su un mercato interbancario da cui stavano provenendo segnali fortemente
preoccupanti. Obiettivo da considerarsi raggiunto, a
detta di Powell, secondo cui «l'attuale posizione di politica monetaria
rimarrà probabilmente inalterata fintantoché i dati relativi allo stato
dell'economia saranno coerenti con il nostro outlook di crescita moderata e di
robusto mercato del lavoro», oltre che di regolare andamento dell'inflazione. «Qualora
dovessero emergere sviluppi tali da provocare un riesame sostanziale delle
prospettive – ha aggiunto il governatore – prenderemmo naturalmente adeguate
contromisure».
Contromisure che la stessa Fed
non aveva esitato ad adottare solo poche settimane prima del pronunciamento di
Powell. A cavallo tra la fine di ottobre e l'inizio di novembre, infatti, la Banca
Centrale Usa varò l'ennesimo abbassamento dei tassi di – per la precisione, di un
quarto di punto percentuale, spostando la banda di oscillazione dall'1,75%-2%
all'1,5%-1,75% – nonostante
il parere contrario espresso dagli economisti Ester L. George e Eric S.
Rosengren, membri del board della Fed fermamente convinti che l'economia nazionale
non avesse assolutamente bisogno di ulteriori stimoli. Secondo il loro parere,
il consolidamento del trend positivo registrato dal mercato del lavoro, l'andamento
"regolare" dell'inflazione, il ritmo di crescita registrato dal Pil
(+1,9% annualizzato nel terzo trimestre, a fronte di un +2% del secondo
trimestre e un +3,1% nel primo), la piega positiva che sembravano aver preso le
trattative commerciali con la Repubblica Popolare Cinese e un più equilibrato
calcolo dei rischi connessi alla prospettiva dell'Hard Brexit avrebbero
suggerito di mantenere inalterata la politica monetaria portata avanti fino a
quel momento.
Di diverso avviso era il
governatore Jerome Powell, che di concerto con i suoi più stretti consiglieri e
in piena sintonia con la Casa Bianca aveva ritenuto necessario aumentare le
riserve a quota 1.500 miliardi di dollari, identificata come soglia critica da
raggiungere per assicurare il corretto funzionamento dell'economia nazionale.
Pertanto, l'espansione del bilancio della Federal Reserve sarebbe proseguito
quantomeno fino al secondo trimestre del 2020. Lo stesso Powell chiarì tuttavia
che l'allentamento dei tassi non era stato varato in conformità a una linea
prestabilita, ma sulla base delle performance registrate nel trimestre
precedente. La Fed ammise dunque di non avere in serbo una strategia operativa
da seguire, segno (non troppo) implicito che sull'economia statunitense gravano
incognite di notevole portata.
Nonostante i toni rassicuranti
che caratterizzarono il comunicato stampa diramato dalla Federal Reserve,
secondo cui i mercati finanziari non erano contrassegnati da squilibri
eccessivamente preoccupanti, la realtà è che la combinazione tra azzeramento
dei tassi e lancio dei programmi di Quantitative Easing all'indomani del crack
di Lehman Brothers ha alimentato una crescita astronomica degli indici
borsistici, trainata soprattutto dai buyback. Una peculiarità, quest'ultima,
rimarcata a suo tempo da businessman di grido quali Larry Fink di
Blackrock e il cosiddetto "oracolo di Omaha" Warren Buffett (che
poi ritrattò), e rilevata nel complesso dal 78% dei gestori di fondi interpellati da Bank of America, secondo cui
quella che riunisce le aziende statunitensi quotate in Borsa sarebbe la
categoria d'investimento più sopravvalutata. L'aumento costante dei buyback è
peraltro coinciso con un forte calo degli investimenti, diminuiti dell'1,5% da
un trimestre all'altro e sostenuti soltanto dalla settore della proprietà
intellettuale. Quelli connessi ai macchinari e alle strutture sono infatti crollati
rispettivamente del 3,8 e del 15,3%.
Un ulteriore fattore di criticità
è dato dall'aumento dei tassi sul mercato interbancario, che la Federal Reserve
si ostina a imputare a ragioni tecniche quali il programma di 'normalizzazione
monetaria' che era stato avviato lo scorso anno con la progressiva liquidazione
dei titoli in bilancio (Quantitative Tightening) e la scelta
dell'amministrazione Trump di finanziare la propria radicale politica fiscale
con massicce emissioni di obbligazioni, che di fatto "assorbono"
liquidità dal sistema riducendo la disponibilità di denaro in circolazione. In
realtà, l'incremento dei tassi sul mercato interbancario a fronte di una
politica monetaria iper-accomodante come quella portata avanti dalla Federal
Reserve è un chiaro indice del calo di fiducia che gli istituti di credito ripongono
nei confronti dei loro simili. Esattamente come accadde alla vigilia della
crisi del 2008, quando le banche smisero di prestarsi denaro tra di loro in
conseguenza del fallimento di due fondi d'investimento connessi a Bnp Paribas. Non
a caso, la Fed si è recentemente vista costretta a incrementare costantemente
le iniezioni di liquidità nel sistema intervenendo direttamente sul mercato
dei repurchase agreement (repo) di tipo overnight, con lo scopo
deliberato di fornire denaro a basso costo alle banche così da intensificare le
pressioni al ribasso sui tassi.
Quantomeno fino a qualche settimana
fa, quando Powell dichiarò ufficialmente conclusa la manovra correttiva sui
tassi in atto ormai da svariati mesi, che aveva portato la Fed a sospendere il
processo di normalizzazione monetaria imponendo un brusco stop ai programmi di
Quantitative Tightening (Qt). I quali implicarono una forte riduzione il
credito bancario disponibile associato a un simultaneo incremento del livello
di remunerazione garantito dai titoli obbligazionari, in parallelo alla
riduzione del loro prezzo di vendita. Ciò produsse una serie effetti immediati.
Da un lato, la combinazione
tra aumento dei tassi e "smobilitazione" delle riserve
accumulate attraverso il Qe provocò una carenza di dollari di cui risentirono
in primis i mercati emergenti – come la Turchia, l'Argentina e l'Indonesia
– che per frenare la fuga di capitali innescata dalla politica restrittiva
della Federal Reserve si videro costretti a "dissanguarsi"
innalzando a loro volta i tassi di interesse. In precedenza, questi Paesi,
bisognosi di attrarre denaro per soddisfare i criteri del Washington consensus,
erano stati letteralmente sommersi dai capitali stranieri come conseguenza
della politica monetaria espansiva condotta dalla Fed.
Allo stesso tempo, l'aumento
del grado di redditività dei T-Bond, dovuto al rialzo dei tassi, determinò
un massiccio trasferimento di capitali dai mercati azionari a quelli
obbligazionari ponendo le basi per un colossale crisi borsistica. Non va
infatti dimenticato che, grazie al fiume di liquidità reso disponibile dai
programmi di Qe, l'indice Standard & Poor's 500 registrò una crescita
superiore al 350 % a partire dal settembre 2008 (crack di Lehman Brothers). Il
medesimo discorso può essere esteso al Dow Jones e al Nasdaq. La
crescita esorbitante realizzata dai tre principali indici di Wall Street nell'arco
del passato decennio rischia quindi di essere spazzata via dagli effetti
generati dal credit crunch varato dalla Fed.
A ciò andava sommato il
forte incremento del deficit federale, imputabile alla sinergia negativa
scaturita dalla combinazione tra l'aumento delle spese militari e gli
effetti diretti dell'entrata in vigore del Tax Cuts and Jobs Act. La
radicale riforma fiscale elaborata dall'amministrazione Trump è infatti
all'origine della caduta delle entrate tributarie, a cui il Dipartimento del
Tesoro pensò bene di porre rimedio moltiplicando le emissioni di T-Bond. Il
che non potrà che provocare un forte aumento degli oneri sul
debito, che coniugandosi con gli effetti della guerra commerciale che gli Stati
Uniti hanno dichiarato a Cina, Germania e Giappone, sta contribuendo
a gettare i semi per un rialzo dei tassi "autonomo" vale a dire non
direttamente controllabile dalla Federal Reserve.
Si tratta di un fenomeno
potenzialmente devastante, tenuto conto che un decennio di tassi a zero ha
provocato una colossale distorsione del mercato dei prestiti in tutti i settori
dell'economia nazionale. Attualmente, il debito federale supera i 21,6
trilioni di dollari (più del doppio rispetto a quello registrato al momento
della bancarotta di Lehman Brothers), quello societario a 15,5 trilioni e
quello delle famiglie a 14 trilioni. Se a ciò si aggiunge l'incremento dei
debiti scolastici, di quelli per l'acquisto di automobili e di quelli legati
alle carte di credito, è facile concludere che gli Stati Uniti stanno
letteralmente muovendosi su un campo minato. Non a caso, Peter Schiff,
navigatissimo gestore di fondi, ha espresso l'opinione secondo cui «l'economia
americana è in condizioni peggiori di quanto fosse dieci anni fa».
Anche perché la Federal Reserve
si trova in una posizione molto più delicata rispetto al 2008, così come la
situazione debitoria in cui versa il sistema-Paese. Powell non ha mancato di
sottolineare questi fattori di criticità, ponendo enfasi sull'insostenibilità
del debito accumulato dagli Stati Uniti ed esortando Casa Bianca e Congresso a
mettere a punto politiche di bilancio meno estreme di quelle portate avanti
finora. La presa di posizione del governatore della Fed si configura come una
pubblica rivendicazione dell'indipendenza della Banca Centrale, ormai da anni nel
mirino di Donald Trump per via della sua linea operativa giudicata
eccessivamente rigida e sfavorevole al buon andamento dell'economia nazionale. Il
tycoon newyorkese ha infatti ripetutamente invocato un drastico abbassamento
dei tassi, che a suo dire avrebbe garantito un incremento dei listini di un
ulteriore 25%.
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