Nel mese di novembre, l'economia
statunitense ha creato circa 266.000 nuovi posti di lavoro. Una cifra di molto
superiore alle attese (ferme a circa 180.000) e tale da comprimere ulteriormente
il tasso ufficiale di disoccupazione, portandolo al 3,5% dal 3,6% registrato ad
ottobre. Il dato viene giudicato particolarmente incoraggiante dalle autorità
di Washington non solo perché fotografa il risultato migliore mai conseguito
dal 1969, ma anche perché uscito a poche settimane di distanza dalla notizia
relativa al preoccupante calo degli indici dell'attività manifatturiera (in
contrazione per ben due mesi consecutivi, con conseguente crollo ai minimi da
dieci anni a questa parte) e dei servizi (a sua volta ai minimi dal 2016).
Compensati, nel caso specifico, da una crescita degli impieghi nei settori
della sanità e dei trasporti.
Gli esperti non si stancano mai
di ricordare che l'apparato economico Usa necessita di non meno di 100.000
nuovi posti di lavoro ogni mese per stare al passo con l'incremento della forza
lavoro, giunta ad annoverare oltre 259
milioni di persone e a registrare un tasso di partecipazione alla crescita
economica del Paese del 63,2%.
Dati praticamente analoghi si
registrarono anche un quarantennio fa, quando il tasso di partecipazione si
attestava stabilmente tra il 62 e il 63%. Ma con due importanti differenze
rispetto ad allora: in primo luogo, è notevolmente aumentata la partecipazione
delle donne a fronte di una continua contrazione di quella degli uomini.
Secondariamente, il tasso di disoccupazione di allora era al 6,7%. Segno che,
in confronto ad allora, sono aumentati i cosiddetti 'inattivi', vale a dire
coloro i quali non cercano lavoro pur essendo in età lavorativa. Attualmente,
la categoria in questione riunisce quasi 96
milioni di persone, a cui vanno ad affiancarsi 6 milioni di sottoccupati.
Naturalmente, un contributo all'incremento
del tasso di inattività viene dall'aumento di coloro che proseguono gli studi,
ma il fenomeno ha assunto dimensioni tali da non poter essere spiegato con il
semplice manifestarsi di tendenze congiunturali come questa. Il numero totale degli
inattivi è infatti rimasto sostanzialmente stabile per tutti gli anni '80 e
'90, salvo poi crescere assai rapidamente a partire dal nuovo millennio. Nel
dettaglio, tra il 1980 e il 2000, il tasso di inattività è rimasto invariato a
fronte di un aumento della popolazione in età lavorativa di circa 40 milioni di
unità. Nel ventennio successivo, la popolazione in età lavorativa – aumentata
di oltre 20 milioni di unità – è
cresciuta di un ammontare praticamente identico rispetto al numero degli
inattivi, passati da 56 a 76 milioni. Non essendo entrati nella forza lavoro,
questi inattivi non vengono conteggiati né nel computo degli occupati né in
quello dei disoccupati. Il che spiega come mai il tasso di disoccupazione calcolato
attualmente risulti molto più basso rispetto alla fine degli anni '70, quando
gli inattivi superavano di poco la soglia delle 50 milioni di unità.
La ripresa del mercato del lavoro
statunitense tende quindi ad accompagnarsi a un elevato livello di inattività,
e di conseguenza a un basso tasso di partecipazione. Il problema tende quindi a spostarsi sul terreno della
produttività, come avvalorato dal fatto che il tasso di crescita del Pil pro capite
per lavoratore è
crollato ai livelli registrati a fine anni '70. Il che potrebbe concorrere
– di concerto con la crescita continua del comparto dei servizi, che per sua
natura intensifica le pressioni alla precarizzazione – a spiegare il ristagno
dei salari statunitensi, che faticano sempre più a seguire il passo del costo
della vita. Rispetto ad agosto, le paghe orarie sono addirittura diminuite di
un centesimo come probabile effetto diretto del declino dei posti di lavoro nel
settore manifatturiero, di gran lunga il meglio retribuito. E al netto dell'inflazione,
i salari sono lievitati di appena l'1,2% nel corso del 2018. Qualora il trend dovesse
consolidarsi, i redditi delle famiglie conoscerebbero una contrazione tale da
minacciare i consumi, che pesano per circa il 65% del Pil statunitense.
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