martedì 31 dicembre 2019

La terziarizzazione dell'economia statunitense




Come è noto, gli Stati Uniti, prima società post-industriale, sono stati i primi a subire gli effetti della delocalizzazione da parte delle loro imprese, indotta dalle politiche neoliberiste portate avanti dai governi Reagan, Bush senior, Clinton e Bush junior, con la sottoscrizione di accordi di libero scambio quali il Nafta e la rimozione progressiva di tutte le barriere a protezione del mercato interno. Da avanguardia capitalistica quali erano, gli Usa tracciarono quindi il sentiero che avrebbero progressivamente percorso tutti gli altri Paesi industrializzati, facendo sì che nell'arco di trent'anni (1980-2010), gli investimenti esteri della Francia crescessero dal 3,6 al 57% del Pil, quelli della Germania dal 4,7 al 45,7%, quelli dell'Italia dal 6 al 28%. Secondo alcuni calcoli, se quella ricchezza fosse rimasta entro i rispettivi confini nazionali, la Francia avrebbe creato 5,9 milioni di posti di lavoro, la Germania 7,3 milioni e l'Italia 2,6 milioni – non è un caso che tutti i Paesi che hanno fatto massiccio ricorso alla delocalizzazione siano stati scavalcati nelle classifiche internazionali.
Per gli Usa le cose stanno in maniera ancora peggiore, poiché l'impatto della delocalizzazione degli impianti produttivi verso i Paesi che offrono serbatoi pressoché inesauribili di manodopera a basso costo è stato letteralmente devastante. Un'inchiesta del New York Times risalente al 2006 ha documentato l'impatto sul settore automobilistico della deindustrializzazione indotta dalla delocalizzazione. Secondo le rivelazioni dell'autorevole quotidiano newyorkese, il trasferimento di centinaia di migliaia di posti di lavoro all'estero ha fatto sì che nelle città assurte negli anni '20 a capitali mondiali dell'automobile la disoccupazione dilagasse e i lavoratori pensionati superassero per numero quelli occupati nel settore stesso. Come conseguenza, metropoli come Detroit si sono trasformate in città fatiscenti in cui l'aumento degli individui ridotti sul lastrico a causa della perdita del lavoro ha favorito una vera e propria proliferazione incontrollata della criminalità.




Il calo dei posti di lavoro disponibili non è tuttavia imputabile unicamente alla delocalizzazione, ma anche alla progressiva introduzione di macchine che hanno gradualmente sostituito i colletti blu, i quali sono stati costretti a riciclarsi nei campi lavorativi comunemente rientranti nel settore terziario. L'effetto diretto di questo processo è stato l'affermazione del comparto dei servizi a scapito di quello manifatturiero in tutte le economie mature che in epoche precedenti erano state investite da poderosi processi di industrializzazione. In Gran Bretagna, Paese da cui ebbe origine la Rivoluzione Industriale, l'occupazione manifatturiera era al 45% alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, per poi scendere a poco più del 30% ed attestarsi su quel livello fino ai primi anni '70, quando ha cominciato a crollare. Attualmente, il settore industriale impiega meno del 10% della forza lavoro complessiva del Paese. In Svezia, l'occupazione nel settore manifatturiero ha raggiunto un picco del 33% intorno alla metà degli anni '60, per poi precipitare a valori di poco superiori al 10%. Anche in Germania, la più moderna potenza industriale del mondo, l'occupazione manifatturiera ha raggiunto il picco del 40% verso il 1970, e da allora ha cominciato a diminuire a ritmo costante. Negli Stati Uniti, ai primordi del XIX Secolo, il settore manifatturiero impiegava meno del 3% della forza lavoro, ma la sua vertiginosa espansione lo portò ad assorbire qualcosa come il 25-27% della massa lavoratrice nei primi anni '60. Da allora, sull'onda della deindustrializzazione, l'occupazione nel comparto manifetturiero è calata costantemente fino ad assorbire meno del 10% dei lavoratori.
Nello specifico, tra il 1980 e il 1990 il numero degli impiegati nel settore scese a 17,7 milioni di unità a fronte di un incremento dell'occupazione totale da 90 a 108 milioni di persone. Il che ha favorito il sorgere di due fenomeni di portata epocale, quali l'esplosione del deficit estero degli Usa, che non producendo quasi più nulla si videro costretti da importare quantità sempre crescenti di merci approfittando del ruolo di moneta di riferimento internazionale di cui è titolare il dollaro, e l'abbassamento dei salari, come conseguenza diretta del calo vertiginoso di posti di lavoro di buon livello in favore di quelli assai meno tutelati nelle varie branche dei servizi. Gli impiegati nel terziario non godono infatti dei benefici conquistati nel corso dei decenni dai colletti blu, che già durante il boom economico del secondo dopoguerra erano riusciti ad ottenere buone condizioni per quanto riguarda le prestazioni mediche e le pensioni, incluse nei contratti di categoria e pagate della imprese. Durante gli anni '70, i salari reali Usa, misurati a prezzi costanti 1982 e calcolati su base settimanale, erano calati dai 313 dollari del 1970 ai 299 del 1979, ma questa diminuzione era imputabile essenzialmente alla riduzione delle ore lavorate, connessa a sua volta all'esaurirsi della spinta propulsiva keynesiana rappresentata dalla Guerra del Vietnam. Nel decennio che va dal 1980 al 1990, calarono invece sia i salari orari che i guadagni settimanali, che scesero – sempre a prezzi costanti del 1982 – a 263 dollari. Sotto l'amministrazione Clinton, il calo occupazionale nel settore manifatturiero e la tendenza al ribasso dei salari subirono una battuta d'arresto dovuta alla crescita elefantiaca della bolla della New Economy, che implicava una notevole attività manifatturiera.
All'epoca, schiere di investitori, incoraggiate dai bassi tassi di interesse applicati dalla Federal Reserve, invasero il mercato delle telecomunicazioni facendo crescere l'indice Nasdaq dell'85% nel solo 1999. Nella primavera del 2000, la capitalizzazione di mercato delle aziende operanti nel comparto delle telecomunicazioni raggiunse le 2,7 migliaia di miliardi di dollari. Le aziende del settore, inebriate dalla frenesia generale, iniziarono a coprire il suolo statunitense e persino i fondali oceanici con interi reticolati di cavi in fibra ottica lunghi milioni di km; una quantità di gran lunga superiore a quella necessaria a soddisfare la domanda reale di linee di comunicazione. Alimentata dalla fiducia che il mercato dell'hi-tech si sarebbe espanso all'infinito, la crescita di questo settore si arrestò rapidamente a causa del drastico calo di profitti indotto dal bassissimo tasso di utilizzazione, prossimo al 3%, delle reti di telecomunicazione. Ciò determinò l'arresto della speculazione al rialzo e l'automatico avvio di quella al ribasso, la quale innescò una lunga catena di fallimenti che portò le compagnie operanti nel settore delle telecomunicazioni a trascinare nella loro caduta gran parte dei titoli tecnologici (telefonia mobile e fissa, software, informazione on-line, siti di e-commerce, web-agency, incubatori di start-up, ecc.) –  provocando la bancarotta di alcune aziende di grandi dimensioni (Worldcom, QWest, Global Crossing) – e a porre fine alla breve fase espansiva che, secondo il parere di svariati economisti statunitensi, si sarebbe dovuta propagare per molti anni. Dall'esplosione della bolla della New Economy, i salari reali statunitensi hanno ripreso assieme al tasso di occupazione manifatturiera.
La sconsiderata gestione dell'immigrazione, che ha di fatto messo in concorrenza i lavoratori autoctoni con quelli stranieri, disposti ad accontentarsi di paghe ridotte e di minori garanzie pur di trovare un'occupazione, ha inoltre contribuito non soltanto a consolidare la tendenza al ribasso dei salari, ma anche ad assestare un colpo micidiale alle conquiste sociali ottenute nel corso dei decenni dalle classi lavoratrici. Si è così inaugurata l'era della flessibilità, che ha radicalizzato il processo di svalutazione e precarizzazione del lavoro. Come osserva l'analista di Merrill Lynch Jose Rasco: «il lavoratore temporaneo è il lavoratore marginale, il primo ad essere licenziato […]. La crescita di lavoratori temporanei è il segno che i datori di lavoro stanno cominciando ad applicare i principi della contabilità alle risorse umane. Le imprese, cioè, stanno forse tramutando il lavoro da costi fisso a costo variabile. Invece di arruolare lavoratori e pagargli un salario integrale con i benefici sociali, le aziende li tengono come lavoratori temporanei e flessibili; la forza-lavoro può così essere adattata secondo i capricci della domanda. Aziende che non dispongono di pricing power [ossia non dispongono più del potere di determinare i prezzi a cui vendere le proprie merci a causa della sovrabbondanza dell'offerta rispetto alla domanda], quando in più le materie prime rincarano, che cosa possono fare per aumentare i loro margini di profitto? La risposta è ovvia. Il modo più facile di accrescere la profittabilità è ridurre il maggior costo fisso: la manodopera».

lunedì 30 dicembre 2019

Trump-Biden: due pesi, due misure




Nel 2012, la Shell si aggiudicò l'appalto per lo sfruttamento del giacimento di shale gas di Yuzivska, situato al confine tra le regioni ucraine di Kharkov e Donec'k, che stando a stime statunitensi conterrebbe oltre 4.000 miliardi di m3 di gas. Lo ottenne di concerto con l'ucraina Burisma, holding di proprietà del potente ed influente oligarca Igor Kolomojskij nel cui consiglio d'amministrazione sedevano l'ex presidente polacco Alexander Kwasniewski, David Leiter, capo dello staff del segretario di Stato John Kerry, Hunter Biden, figlio del vicepresidente statunitense Joe Biden sprovvisto di qualsiasi esperienza precedente nel settore del gas, e Devon Archer, ex consulente finanziario di Kerry e socio d'affari dello stesso Hunter Biden nella Rosemont Seneca, società di consulenza da cui, grazie ai buoni uffici di Joe Biden, nacque quello che il Wall Street Journal ha definito «il più grande fondo private equity cinese-americano», costituito assieme al Bohai Investment di Pechino e all'Harvest Global Investment di Hong Kong. Hunter Biden entrò nel consiglio d'amministrazione del fondo dopo aver preso parte a una riunione d'alto rango in Cina, dove si era recato in compagnia del padre mediante un viaggio a bordo dell'Air Force Two.
All'epoca, il Washington Post, quotidiano tradizionalmente vicino al Partito Democratico, fu tra i primi a sollevare forti perplessità in merito alla faccenda, domandando sarcasticamente «quanto deve essere alto lo stipendio del figlio di Biden per mettere così a rischio il soft power statunitense». Tanto più che questi intrecci in cui erano invischiati personaggi legati all'establishment Usa tendevano ad avvalorare le tesi propugnate dal presidente russo Vladimir Putin, secondo cui l'attivismo di Washington in Ucraina era profondamente influenzato da concretissimi interessi personali di alcuni membri del governo.
Alcuni portavoce del governo Usa, dal canto loro, cercarono di giustificare il tutto sostenendo che l'insediamento nel consiglio di amministrazione della Burisma di personale fidato e fortemente ammanicato con le alte sfere del governo di Washington rappresentava una forma di "garanzia" che gli Stati Uniti intendevano fornire all'Europa attestante il loro impegno a dotare il "vecchio continente" di una fonte di approvvigionamento energetico alternativa a quella russa. Che uno degli obiettivi geostrategici perseguiti da Washington consista nell'indebolire il vincolo energetico che lega l'Europa a Mosca è fuori di dubbio, ma i retroscena emersi nel corso delle ultime settimane in merito al caso Burisma lasciano intendere una realtà ben differente.
Come si legge sulle colonne di The Hill, «i documenti bancari statunitensi attestano che la società facente capo a Hunter Biden, la Rosemont Seneca, aveva ricevuto da Burisma accrediti regolari, generalmente superiori ai 166.000 dollari al mese, su uno dei suoi conti tra la primavera del 2014 e l'autunno del 2015; il medesimo lasso di tempo in cui il vicepresidente Joe Biden ricopriva il ruolo di principale funzionario statunitense incaricato di gestire la crisi ucraina». Non stupisce pertanto, alla luce di tutto ciò, che le attività di Hunter Biden fossero finite sotto la lente d'ingrandimento del procuratore generale ucraino Viktor Šokin. Il problema è che, una volta scoperta la natura delle indagini condotte dalla procura di Kiev, Joe Biden pensò bene di avvalersi della sua autorità per tirare fuori suo figlio Hunter dai guai. Decise pertanto di intensificare le pressioni sull'allora presidente Petro Porošenko, minacciando di bloccare il flusso di aiuti statunitensi su cui si reggeva la stabilità finanziaria della disastrata Ucraina qualora Šokin non fosse stato rimosso dall'incarico. È stato lo stesso ex vicepresidente statunitense, ora impegnato alla corsa per la nomination democratica, a raccontare la vicenda in questi termini, affermando di aver chiarito dinnanzi alle controparti ucraine che «"se il procuratore non viene licenziato, non avrete i soldi". Ebbene, quel figlio di puttana (risate) fu cacciato. E al suo posto nominarono qualcuno che, all'epoca, riscuoteva il nostro gradimento».
Attualmente, i democratici si avvalgono di questa vicenda come atto d'accusa per legittimare l'impeachment a danno di Donald Trump, reo – anziché chiedere delucidazioni a Biden in persona – di aver esercitato forti pressioni sul nuovo presidente ucraino Volodymyr Zelenskij per costringerlo a fornirgli informazioni incriminanti sul contro dell'ex vicepresidente, al fine di minare la sua corsa alla nomination democratica.
Da ciò emerge che tanto Biden quanto Trump hanno sfruttato la loro posizione di potere per perseguire scopi personali che non hanno nulla a che vedere con l'interesse del Paese. La differenza è che mentre il presidente il carica si trova a fronteggiare una procedura d'impeachment (che assai difficilmente andrà in porto, visto che i repubblicani – pur non coesi in merito al da farsi – controllano ancora il Senato), l'aspirante candidato democratico alle elezioni del 2020 non è stato oggetto di alcun procedimento giudiziario né tantomeno declassato nelle gerarchie del partito.

sabato 28 dicembre 2019

Nei conti del governo federale Usa c'è una voragine da 21 trilioni di dollari di spese ingiustificate


Stando a quanto dichiarato da Mark Skidmore, professore di economia specializzato in finanza pubblica che lavora presso la Michigan State University, tra il 1998 e il 2015 due dipartimenti del governo federale Usa avrebbero effettuato spese non giustificate per oltre 21 trilioni di dollari. È quanto emerge da un'analisi a tappeto condotta da Skidmore e da una squadra di suoi collaboratori sul bilanci del Pentagono, del Dipartimento per gli Alloggi e lo Sviluppo Urbano e dell'Ufficio dell'Ispettore Generale. L'idea di passare al setaccio i conti del governo federale nasce dalle denunce formulate in precedenza da Catherine Austin Fitts, che in qualità di assistente al Dipartimento per gli Alloggi e lo Sviluppo Urbano sotto l'amministrazione Bush jr. denunciò che l'Ispettore Generale gli aveva confidato che, al luglio 2016, nel bilancio del Dipartimento della Difesa vi era un "buco" da 6,5 trilioni di dollari di spese ingiustificate. Skidmore, confortato dalla sua lunga esperienza nella pubblica amministrazione, pensò subito che la Fitts avesse scambiato miliardi con trilioni, ritenendo che un ammanco del genere fosse troppo grande anche per un apparato colossale come il Pentagono.
Decise quindi di vagliare in prima persona la documentazione, giungendo infine alla conclusione che le stime riportategli erano corrette, come confermato successivamente da un rapporto stilato dall'ispettore generale del Pentagono secondo cui il Dipartimento della Difesa non era stato in grado di esibire una documentazione completa attestante la destinazione finale di quei 6,5 trilioni di dollari di aggiustamenti nel bilancio dell'esercito tirati. Skidmore e la Fitts costituirono allora un gruppo di lavoro composto anche da un paio analisti economici freschi di laurea incaricati di raccogliere i dati e di incrociarli sa tra loro che con i rapporti periodici che l'Ispettore Generale aveva redatto a partire dal 1998, anno in cui entrarono in vigore le nuove regole sulla contabilità pubblica, fino al 2015, anno a cui si riferisce l'ultimo rapporto disponibile. Come ha spiegato lo stesso Skidmore: «a volte il revisore è obbligato a operare un aggiustamento dei conti perché le transazioni che è chiamato a verificare non sono correttamente riportate. Solitamente, le incongruenze riguardano una pozione minima della spesa totale autorizzata, oscillante tra lo 0,1 e l'1%. Ma per quanto riguarda il Pentagono, l'1% corrisponde a circa 1,2 miliardi di transazioni inadeguate […]. Lo studio che abbiamo condotto è incompleto, ma ci ha comunque permesso di rintracciare aggiustamenti per qualcosa come 21 trilioni di dollari. La fetta maggiore spetta alle forze armate. Siamo stati in grado di analizzare accuratamente 13 dei 17 anni presi in esame, e abbiamo trovato 11,5 trilioni di dollari di aggiustamenti soltanto per quanto riguarda l'esercito».
Skidmore non si spinge a ipotizzare che fine abbia fatto questa immane quantità di denaro pubblico, né se sia stata, rubata o impiegata per finanziare progetti legittimi ma non dichiarati. A tale proposito, un contributo assai sostanzioso lo hanno indubbiamente apportato gli sprechi, spesso associati a progetti sostanzialmente fallimentari. Stando, tanto per fare un esempio, a un rapporto firmato da Michael Gilmore, ex direttore della sezione del Pentagono che si occupa di testare i sistemi d'arma, il modello del caccia F-35 presentava ben 276 problemi tecnici (scarsa visibilità, scarsa manovrabilità, scarsa affidabilità dei sistemi di attacco, difficile visibilità in condizioni meteorologiche avverse) la cui risoluzione ha finito inesorabilmente per assorbire quantità ingenti di denaro aggiuntivo. Secondo la Cnbc, «l'F-35 simboleggia tutto ciò che c'è di sbagliato nella spesa per la Difesa Usa: produttori incontrollati ed incontrollabili (in questo caso, Lockheed Martin), e una cultura del Pentagono incapace di seguire adeguatamente i dollari dei contribuenti». Una cosa del genere è accaduta con i mezzi Mrap (Mine-Resistant Ambush Protected), veicoli anti-mine al cui sviluppo erano stati dedicati circa 50 miliardi di dollari prima che gli esperti statunitensi si accorgessero che i vantaggi che offrivano in termini di blindatura erano vanificati dalla scarsissima velocità di movimento e dal loro costo astronomico.
Risultati altrettanto problematici sono stati conseguiti dalle unità navali di superficie Lcs, prodotte da Austal e Lockheed Martin: «debolezza strutturale, inadeguatezza del sistema informatico, fusione dei gruppi elettrogeni, tubi che tendono a scoppiare, deficit di propulsione ed errori di trasmissione potenzialmente disastrosi. Gli ufficiali sono inoltre scettici sulla loro efficienza in combattimento. Nel 2016, il presidente del comitato dei servizi armati del Senato John McCain ha aspramente criticato il programma, rilevando che ben 12,4 miliardi di dollari erano stati sprecati dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti per 26 unità Lcs prive di capacità di combattimento. Secondo Michael Gilmore, direttore dell'ufficio del Pentagono che effettua i test, nessuna delle due varianti della nave Lcs sopravvivrebbe in combattimento […]. Vi inoltre menzionato il caso della portaerei Gerald Ford, il cui costo iniziale era stato stimato in 13 miliardi di dollari. La consegna è in ritardo di due anni, e il principale tester del Pentagono ritiene che non sia in condizione di combattere. Ha problemi col controllo aereo, il caricamento delle munizioni, l'autodifesa, il lancio e l'atterraggio di aerei. Un rapporto dell'ufficio per la responsabilità del governo ha rilevato che la combinazione tra l'aumento dei costi, gli ostacoli ingegneristici e la presenza di sistemi tecnologici non testati sta producendo una situazione allarmante che va affrontata dal Congresso. Alcuni esperti hanno anche sottolineato che nell'epoca dei missili a lungo raggio e potenti, le portaerei saranno obsolete (ma ancora incredibilmente costose) come risorse strategiche».
Per quanto gravosi, gli sprechi rappresentano tuttavia soltanto uno dei fattori di criticità segnalati da Mark Skidmore. A suo parare, infatti, ammanchi tanto misteriosi nel bilancio federale come quelli emersi nel corso della sua analisi non possono che certificare la presenza di qualcosa di profondamente sbagliato nel sistema di assegnazione dei fondi pubblici di cui si avvale il governo. La stupefacente mancanza di trasparenza, aggiunge il professore, stride in maniera palese con quanto stabilito il merito dalle leggi statunitensi, che attribuiscono al Congresso il compito di giustificare le spese federali. È interessante notare, a questo proposito, che l'annuncio di un audit da parte del Pentagono è giunto pochi giorni dopo che Skidmore aveva cofirmato con il suo collega di Boston Laurence Kotlikoff un articolo per Forbes in cui si dava conto delle sue ricerche. Tale risultato ha indotto il professore ad affermare che «anche se non possiamo sapere con certezza quale ruolo abbiano svolto i nostri sforzi nell'indurre il governo a riprendere in mano documenti originali e a condividerli con il pubblico, riteniamo che possa aver fatto la differenza», anche se, stando a quanto denunciato dallo stesso Skidmore, alcuni dei link ai documenti chiave grazie ai quali la sua squadra era riuscita a certificare l'inghippo sono stati nel frattempo disattivati – nei giorni successivi, i documenti in questione sono stati reinseriti ed etichettati con indirizzi differenti. «È importante che il Congresso e i cittadini statunitensi abbiano fiducia nella capacità del Dipartimento della Difesa di amministrare correttamente ogni dollaro dei contribuenti», ha commentato il sottosegretario alla Difesa David Norquist cercando evidentemente di smentire le conclusioni di un'approfondita inchiesta condotta nel 2013 per Reuters da Scott Paltrow, il quale si era convinto che «negli uffici del Dfas che si occupano di tenere la contabilità per conto di Esercito, Marina, Aeronautica e altre agenzie della Difesa, quella consistente nel falsificare i conti è una procedura operativa standard».

domenica 22 dicembre 2019

Il petrolio siriano al centro del "grande gioco"




«Ci impadroniremo del petrolio siriano e lo consegneremo alle compagnie statunitensi, per evitare che se ne appropri l'Isis». Donald Trump non poteva esprimersi in maniera più chiara e inequivocabile nel corso della conferenza stampa organizzata lo scorso ottobre per proclamare trionfalmente – ma senza mostrare alcuna prova a supporto – l'uccisione del califfo al-Baghdadi per mezzo di un raid aereo condotto dall'Usaf. Durante l'incontro con i giornalisti, il presidente non mancò inoltre di annunciare lo schieramento, che andava a configurarsi come una palese violazione delle più elementari norme di diritto internazionale, di truppe statunitensi nelle aree petrolifere che circondano Deir ez-Zohr, città simbolo dell'immane massacro degli armeni ad opera dei Giovani Turchi recentemente inquadrato come vero e proprio genocidio da parte del Congresso Usa con voto pressoché unanime.
Attualmente, la Siria produce a malapena 25.000 barili di greggio al giorno a fronte dei quasi 350.000 registrati nel 2011, alla vigilia dello scoppio del conflitto, e destinati in larghissima parte a soddisfare il fabbisogno interno. Un'inezia rispetto al vicino Iraq, che produce circa 6 milioni di barili al giorno e dispone di riserve accertate per 142 miliardi di barili (alcune stime ritengono tuttavia possibile che la reale consistenza dei giacimenti iracheni ammonti addirittura a 400 miliardi di barili). Stesso discorso vale per l'Iran, che oltre a detenere riserve petrolifere provate per 158 miliardi di barili dispone di 33 trilioni di m3 di gas naturale (secondo Paese al mondo alle spalle della Russia). Tuttavia, proprio nelle aree geografiche limitrofe a Deir ez-Zohr sono stati recentemente scoperti vasti giacimenti petroliferi sui quali sembra aver posato gli occhi l'Arabia Saudita, che tramite la colossale Saudi Aramco starebbe accantonando la liquidità finanziaria necessaria ad attivare i nuovi pozzi. Nel dettaglio, spiega una fonte generalmente assai ben informata, «l'investimento verrà effettuato attraverso contratti stipulati tra Aramco e governo degli Stati Uniti, le cui forze controllano attualmente la maggior parte dei giacimenti di petrolio e gas nel nord-est della Siria». Qualora Saudi Aramco dovesse concretamente dar seguito ai propri propositi ponendo le basi per lo sfruttamento del petrolio siriano senza l'accordo di Damasco, la crisi regionale che contrappone ormai da anni le petro-monarchie sunnite del Golfo Persico e la cosiddetta "mezzaluna sciita" che riunisce Iran, Siria, Hezbollah e Iraq potrebbe verosimilmente raggiungere un pericoloso punto critico. Tanto più alla luce degli attacchi sferrati lo scorso settembre dai ribelli Houthi contro alcune strutture chiave attraverso le quali si espleta l'export di petrolio saudita; come conseguenza, Riad si vide costretta a ridimensionare il volume delle esportazioni di greggio per diversi giorni scatenando il caos sul mercato petrolifero internazionale.
Si tratta di un problema non da poco per la dinastia al-Saud, perché la fama di swing producer globale di cui l'Arabia Saudita gode storicamente è entrata ormai da anni in una rapida fase di logoramento. La possibilità di limitare deliberatamente la produzione a seconda delle necessità interne e delle fluttuazioni della domanda internazionale di petrolio che il Paese ha sempre avuto a propria disposizione sta infatti venendo progressivamente meno quantomeno a partire dal 2014. Anno in cui Riad concordò con Washington una strategia operativa consistente nel pilotare il crollo del prezzo del petrolio al fine assestare un duro colpo ad Iran e Russia, nazioni che necessitano di un break-even superiore a quello dell'Arabia Saudita. Per quest'ultima, la cui economia dipende tra l'80 e il 90% dalla rendita petrolifera, la strategia dell'oil crash si rivelò tuttavia un vero e proprio boomerang poiché la drastica contrazione delle entrate andò a combinarsi con le spese folli della numerosissima famiglia reale, i colossali piani di riarmo già predisposti allo scopo di potenziare l'architettura di difesa saudita nella Penisola Araba e i costi crescenti della disastrosa guerra in Yemen. Nell'agosto 2014, le riserve valutarie a disposizione di Riad ammontavano a 747 miliardi di dollari (cifra record), ma la crescita esponenziale delle uscite cominciò ad eroderle al ritmo di non meno di 12 miliardi al mese. Secondo un'analisi realizzata dal Fondo Monetario Internazionale, la tendenza riduzione delle riserve valutarie saudite andò velocemente consolidandosi al punto di divenire strutturale.
La consapevolezza che uno delle categorie maggiormente colpite da un crollo del prezzo del petrolio sarebbe stata quella che riunisce le decine di piccole e medie imprese statunitensi operanti nel settore dell'estrazione degli idrocarburi non convenzionali, che necessita una soglia di remunerazione piuttosto elevata, non contribuì affatto a indurre l'amministrazione Obama a desistere dall'appoggiare con convinzione la strategia dell'oil crash. Analogamente agli anni '80, quando l'affossamento della quotazione del greggio fu utilizzata dagli Usa per assestare un colpo micidiale all'arrancante economia dell'Unione Sovietica, all'epoca impantanata della disastrosa campagna militare in Afghanistan, nel 2014 il governo statunitense decise di avvalersi dell'arma petrolifera per indebolire la Russia, reduce dal recentissimo inglobamento della Crimea sull'onda della crisi ucraina.
La depressione del corso petrolifero rappresentò un fattore fortemente critico per gli estrattori di petrolio non convenzionale statunitense, che riuscirono tuttavia a mantenersi a galla grazie ai crediti a buon mercato garantiti dalle banche per effetto della politica dei bassi tassi di interesse portata avanti dalla Federal Reserve.
Coniugandosi con la resilienza dei petrolieri statunitensi e con lo sviluppo di sempre più efficaci tecniche di fracking, l'indebolimento della leva petrolifera a disposizione dei sauditi indusse finì così per indurre una parte piuttosto cospicua degli addetti ai lavori a ritenere che gli Stati Uniti si stiano preparando, se non a sostituire, quantomeno ad affiancare l'Arabia Saudita nel suolo di swing producer globale. Senonché, grazie soprattutto all'attivismo diplomatico del Cremlino, i Paesi produttori di petrolio non inquadrati nell'Opec hanno raggiunto un'intesa de facto con le nazioni appartenenti al cartello con sede a Vienna che ha portato alla nascita di un nuovo organismo, ribattezzato Opec+. La cui mossa di apertura è consistita nell'attuazione di nuovi tagli della produzione atti a limitare l'offerta petrolifera. Segno, rileva l'analista Demostenes Floros, che «l'influenza politica di Mosca sull'Opec è un dato di fatto, mentre il peso statunitense sull'organizzazione, la quale era sempre stata considerata una sorta di "giardino di casa di Washington" da parte delle élite americane, sta sensibilmente diminuendo [...]. L'impressione è che con la nascita dell'Opec+ e con la Cina frattanto divenuta il principale importatore di petrolio al mondo, i sauditi già condividono questa responsabilità con la Federazione Russa più che con gli Usa».
In tale contesto, il petrolio siriano – che Damasco non potrà comunque utilizzare fintantoché non verranno riattivati gli impianti di estrazione, la cui messa in funzione richiede investimenti del tutto proibitivi per il momento – riveste pertanto un'importanza geopolitica e strategica, oltre che economica. Obiettivo degli Stati Uniti è infatti quello di privare il governo siriano delle risorse necessarie alla ricostruzione post-bellica, che il presidente Bashar al-Assad ha più volte annunciato di voler affidare a compagnie russe, cinesi e iraniane come forma di ricompensa per il sostegno militare, politico ed economico assicurato da Mosca, Pechino e Teheran nel momento in cui il Paese si trovava sotto pressione sia interna – esercitata dai gruppi jihadisti – che esterna – esercitata dagli Usa e dai loro alleati della Nato, oltre che dalle monarchie sunnite del Golfo Persico.
Sottraendo al governo siriano il controllo sulle aree circostanti Deir ez-Zohr, Washington intende inoltre di precludere qualsiasi prospettiva di realizzazione del cosiddetto "gasdotto islamico", una conduttura di cui Damasco, Baghdad e Teheran avevano concordato la costruzione nel 2010 per garantire l'afflusso del gas naturale iraniano fino alla città di Banyas, situata sulla costa mediterranea della Siria, attraverso il territorio iracheno. La pipeline si accreditava come alternativa fondamentale alla conduttura che il Qatar aveva proposto l'anno precedente allo stesso Assad, che oppose un secco rifiuto motivato dalla volontà di tutelare gli interessi energetici dell'alleata Russia, principale esportatrice di gas verso il "vecchio continente". La messa a regime della conduttura iraniana, concepita con il pieno assenso di Mosca, minacciava di trasformare la Persia in uno dei principali fornitori europei, cosa che non poteva che suscitare grandi preoccupazioni negli Stati Uniti, in Israele e in Arabia Saudita, acerrimi nemici della Persia sciita. Di qui la decisione, da parte di monarchie del Golfo Persico, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Turchia, di sostenere l'opposizione siriana e predisporre una rivolta finalizzata al rovesciamento di Assad. Prese cose così corpo una massiccia insurrezione guidata da orde etero-dirette di jihadisti confluiti in Siria da gran parte della sterminata galassia sunnita da cui nacque il cosiddetto "Stato Islamico", una organizzazione che rispondeva in pieno alla finalità di balcanizzare la Siria e impedire la costruzione del "gasdotto islamico".
Allo stesso tempo, l'occupazione militare dei pozzi petroliferi di Deir ez-Zohr si delinea come un monito che l'amministrazione Trump ha voluto lanciare a Russia e Turchia, riavvicinatesi con gli accordi per l'acquisto dei sistemi anti-missile di fabbricazione russa S-400 ad opera di Ankara (una mossa che si pone in netto contrasto con l'appartenenza della Turchia alla Nato) e per la realizzazione del gasdotto Turkish Stream, nato sulle ceneri del vecchio South Stream e progettato come quest'ultimo per garantire l'afflusso di metano russo verso l'Europa. Non a caso, sia Putin  che Erdoğan hanno criticato duramente la decisione di Trump di appropriarsi direttamente dei giacimenti siriani, nella consapevolezza che il disegno strategico elaborato dalla Casa Bianca mira al controllo sui flussi energetici che raggiungono il "vecchio continente", e alla contestuale distribuzione delle quote di potere in base alla posizione e del ruolo giocato dagli Stati mediorientali,  in un'ottica di marginalizzazione dell'Iran e di riduzione della dipendenza dell'Europa dagli approvvigionamenti russi. Non a caso, l'Unione Europea si è immediatamente allineata alle direttive statunitensi imponendo sanzioni contro Ankara e spedendo navi militari francesi e italiane presso Cipro come ritorsione (rispettivamente) per il recente sconfinamento di truppe turche nel Kurdistan siriano e l'invio della nave da trivellazione Yavuz presso i giacimenti situati all'interno della 'zona di sfruttamento esclusivo' cipriota. La stessa area cioè, in cui operano le compagnie statunitensi ExxonMobil e Noble Energy, l'israeliana Dalek, la Qatar Petroleum, l'italiana Eni e la francese Total. Il gas cipriota riveste un'importanza cruciale, perché dovrebbe andare a riempire, di concerto con quello egiziano estratto dal colossale giacimento Zohr e con quello israeliano proveniente dai pozzi Tamar e Leviathan, il gasdotto East-Med, concepito di comune accordo da Cipro, Grecia, Italia e Israele per inondare i mercati europei di metano alternativo a quello russo trasportato via Turchia attraverso il Turkish Stream e i due segmenti del Nord Stream.
Il petrolio siriano va pertanto a inserirsi prepotentemente nel "grande gioco" energetico in cui sono coinvolte a vario titolo tutte le principali potenze europee, asiatiche e americane.