venerdì 3 gennaio 2020

L'economia Usa tra (poche) luci e (molte) ombre in vista delle elezioni di novembre



La campagna elettorale statunitense entra nel vivo. Nei giorni scorsi, infatti, Donald Trump non si è lasciato sfuggire l'occasione di rivendicare i successi economici registrati dall'economia nazionale, in particolar modo per quanto concerne l'andamento dei corsi azionari. Sul fronte borsistico, infatti, i tre principali indici – il Dow Jones, il Nasdaq e lo Standard & Poor's 500 – hanno registrato una forte crescita grazie soprattutto all'acquisizione di Fitbit ad opera di Google e alla commercializzazione dei nuovi AriPod  da parte di Apple, forte peraltro di conti trimestrali al di sopra delle aspettative e del recente lancio del proprio servizio di streaming. Dall'inizio del 2019, le azioni della compagnia guidata da Tim Cook sono aumentate del 60%.
Altro capitolo su cui Trump si è soffermato è quello dell'occupazione – che pure non offre un quadro affidabile della situazione lavorativa Usa. Nello specifico, nel mese di novembre gli Stati Uniti hanno creato 266.000 nuovi posti di lavoro; una quota di gran lunga superiore alle aspettative (ferme a 187.000) e che consente al Paese di attestarsi su una media del 3,5%, la più bassa da cinquant'anni a questa parte. Lo stesso presidente ha inoltre rilevato con forza che in assenza delle ripercussioni prodotto da un evento straordinario come il mega-sciopero organizzato dalla United Auto Workers, a cui hanno partecipato centinaia di migliaia di operai della General Motors, il settore manifatturiero avrebbe tenuto il passo e l'ammontare complessivo dei novi posti di lavoro avrebbe sfondato la soglia delle 300.000 unità.
Al netto della propaganda elettorale, tuttavia, l'economia statunitense non si dimostra esente dalle tensioni internazionali causate in primo luogo dalla guerra commerciale ingaggiata con la Repubblica Popolare Cinese, con l'Unione Europea e con tutti gli altri principali partner commerciali degli Usa. Allo stesso tempo, la Federal Reserve si è vista costretta ad abbassare ulteriormente i tassi di interesse e a intensificare il proprio interventismo al fine di contrastare il pericoloso aumento del costo del denaro sul mercato interbancario. Segno, quest'ultimo, che qualcosa nel circuito finanziario non sta funzionando a dovere, come certificato dall'incremento costante del volume dei buyback e dal concomitante  calo degli investimenti, diminuiti dell'1,5% da un trimestre all'altro e sostenuti soltanto dalla settore della proprietà intellettuale. Quelli connessi ai macchinari e alle strutture sono infatti crollati rispettivamente del 3,8 e del 15,3%. Non a caso, le assunzioni nel comparto industriale sono fortemente diminuite e il Manufacturing Index dell'Institute of Supply Management (Ism), il parametro che fotografa l'andamento dell'attività manifatturiera, si attesta ormai da diversi mesi al di sotto dei 50 punti; una soglia che evidenzia una contrazione della produzione. Proprio lo scorso settembre, l'economia statunitense registrò un catastrofico 47,8, il dato peggiore dallo scoppio della grande crisi. In particolare, qualcosa come 12 dei 18 settori industriali presi in esame dagli economisti dell'Ism hanno conosciuto una frenata, a partire da quelli collegati alla metallurgia, all'abbigliamento e al tessile. Sono quindi i servizi, conformemente al processo di 'terziarizzazione' dell'economia che negli Stati Uniti sta ormai conoscendo la propria fase di maturazione, a sostenere l'occupazione e a trainare la crescita economica.
Crescita (+1,9% su base annuale registrata nel terzo trimestre) che comunque si attesta a livelli inferiori a quelli auspicati dall'amministrazione Trump, che, dinnanzi all'affievolirsi dell'effetto trainante generato dalla iper-radicale riforma fiscale da 1.500 miliardi di dollari (comprensiva di un taglio delle imposte corporate dal 35 al 21%) entrata in vigore nel 2018, intende offrire nuovi stimoli attraverso un nuovo taglio delle tasse da introdurre entro il 2020. Lo ha rivelato il sempre ben informato Washington Post, secondo cui il governo, e più specificamente il consigliere economico della Casa Bianca Larry Kudlow e il deputato repubblicano del Texas Kevin Brady (tra gli architetti del Tax Cuts and Jobs Act), avrebbe messo in cantiere un pacchetto di misure – ribattezzato Tax Cuts 2.0 – rivolto soprattutto alla middle-class, che proprio grazie alla riforma fiscale elaborata dall'amministrazione Trump ha pagato per la prima volta nella storia degli Stati Uniti un'aliquota fiscale effettiva maggiore rispetto alla categoria del super-ricchi. Nel dettaglio, Kudlow e Brady ipotizzano di ridurre le tasse sui salari e di indicizzare le imposte sugli utili di capitale all'andamento dell'inflazione, al fine di rilanciare la domanda nel settore da cui dipende maggiormente la crescita economica degli Stati Uniti, quello dei consumi privati, e di ingraziarsi allo stesso tempo il favore dell'americano medio a pochi mesi di distanza dalle elezioni presidenziali. La mossa potrebbe rivelarsi determinante nell'orientare il voto della cruciale Rust Belt, la "cintura della ruggine" che sorge attorno al lago Michigan disseminata di complessi industriali in disuso e che giocò un ruolo fondamentale nello spalancare al tycoon newyorkese le porte della Casa Bianca nel 2016.

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