L'attacco statunitense con droni
Reaper contro l'aeroporto di Baghdad che ha portato alla morte del generale
Qassem Soleimani, a capo della forza al-Quds dei Guardiani della Rivoluzione, e
di altri otto militari iraniani rappresenta un punto di non ritorno. Non solo in
ragione del fatto Soleimani rappresentava al contempo un'icona della
Rivoluzione Islamica, il veterano di innumerevoli battaglie e uno dei
principali architetti della strategia iraniana in Medio Oriente, ma anche e
soprattutto perché attorno alla sua figura chiave tendeva a gravitare l'ala più
oltranzista interna all'establishment della Repubblica Islamica. Il generale dipendeva
infatti direttamente non dal presidente Hassan Rohani, di cui non condivideva
affatto l'approccio moderato e conciliante tenuto con gli Stati Uniti e i loro
alleati, ma dalla ben più potente, agguerrita e influente Guida Suprema,
l'ayatollah Ali Khamenei. Del quale, specialmente in seguito al fallimento
dell'accordo sul nucleare iraniano imputabile pressoché integralmente all'amministrazione
Trump, Soleimani era divenuto l'uomo di fiducia e il principale referente per
quanto concerne la gestione delle operazioni da condurre in quelli che Teheran
considera i principali teatri sensibili. Non a caso, fu lui a recarsi a Mosca
per concordare con Vladimir Putin le strategie da adottare nello scenario mediorientale.
Senza la discesa in campo dei
suoi Pasdaran, coadiuvati dalle milizie di Hezbollah e dalla potenza di fuoco
russa, la Siria di Bashar al-Assad sarebbe inesorabilmente crollata sotto
l'urto jihadista sostenuto dallo schieramento composto da Stati Uniti, Francia,
Gran Bretagna, Turchia e monarchie sunnite del Golfo Persico. Allo stesso tempo,
Soleimani non esitò a sfruttare la presenza sul campo dei propri sottoposti per
accrescere l'influenza iraniana nel quadrante levantino e a far leva sulle
milizie sciite irachene per saldare e rendere permanente l'integrazione della
Mesopotamia nella cosiddetta "mezzaluna sciita" che, passando per
Damasco, collega la Teheran degli ayatollah alla Beirut di Hezbollah.
Ragion per cui, prendendo di mira
un personaggio tanto popolare e potente, gli Stati Uniti hanno commesso un vero
e proprio atto di guerra contro l'Iran, giustificato per di più con motivazioni
decisamente risibili. Se la tesi a supporto della ritorsione contro l'assalto
portato nei giorni precedenti da gruppi di iracheni sciiti – probabilmente manovrati
dall'altra vittima illustre del raid aereo Usa, il vice-comandante del corpo
paramilitare sciita Kata'ib Hezbollah Abu Mahdi Muhandis – non regge perché
manifesta in maniera assai palese la sproporzione tra l'entità dell'offesa subita
e della rappresaglia, quella sostenuta direttamente da Trump, secondo cui Soleimani
era impegnato nella progettazione di attacchi contro diplomatici e militari
statunitensi disseminati in tutto il Medio Oriente, appare ancora più debole.
Non solo perché il presidente Usa si è guardato bene dal fornire prove che
avvalorino la sua presa di posizione, ma anche e soprattutto alla luce del
fatto che contro Soleimani si potevano muovere tante accuse, tranne che fosse
uno sprovveduto.
Al contrario, è proprio l'aggressione
mossa da Washington con l'assassinio di uno degli elementi chiave della
Repubblica Islamica ad incrementare il rischio non di un conflitto di tipo
convenzionale, ma di una escalation
di azioni asimmetriche dalle conseguenze potenzialmente imprevedibili. Spingendo
l'Iran nell'angolo, si costringe infatti la Repubblica Islamica a reagire con
un'azione contraria di entità e "peso" proporzionale a quella subita
e, di conseguenza, si contribuisce a ricompattare un Paese in cui serpeggiava
scontento per via delle sanzioni economiche imposte dagli Usa attorno alla sua
guida politica. Nonché a rafforzare le correnti interne più oltranziste di cui
lo stesso Soleimani costituiva la punta di lancia, a indebolire l'assennata e
raffinata azione diplomatica russa e a irritare ulteriormente la Cina, che si
approvvigiona regolarmente di petrolio dall'Iran e sostiene la Repubblica
Islamica in quanto segmento fondamentale della Nuova Via della Seta. Senza
contare che, per quanto la perdita di un ufficiale dell'esperienza e dell'acume
di Soleimani rappresenti indubbiamente un duro colpo per l'Iran sotto il profilo
operativo e strategico, si tratta pur sempre di un elemento interno alla catena
gerarchica delle Guardie Rivoluzionarie e, pertanto, sostituibile. Nello specifico,
Khamenei ha affidato il comando dell'unità al-Quds orfana di Soleimani al suo
vice Esmail Ghaani, intendendo con ogni probabilità lanciare un segnale di
continuità con il passato. Spetterà presumibilmente a Ghaani il compito di
preparare la rappresaglia contro l'attacco statunitense, che a detta di alcuni
potrebbe assumere la forma di un blocco dello Stretto di Hormuz o di una
intensificazione delle operazioni militare contro strutture petrolifere saudite
da parte dei ribelli Houthi.
Di diverso avviso è l'ex
specialista di controterrorismo della Cia Philip Giraldi, secondo
cui «l'Iran non può lasciare senza risposta
l'uccisione di un alto ufficiale militare anche se non può affrontare
direttamente gli Stati Uniti militarmente. Ma ci saranno rappresaglie e il
sospetto uso da parte di Teheran di proxies per organizzare attacchi limitati
sarà ora sostituito da azioni più pericolose [...]. E c'è anche la carta del terrorismo che rischia di
entrare in gioco. Nel corso degli anni, l'Iran ha subito una vasta diaspora in tutto
il Medio Oriente e, di fronte alle reiterate minacce di Washington, ha avuto
molto tempo per prepararsi a una guerra da combattere in gran parte nell'ombra.
Nessun diplomatico, soldato o persino turista americano nella regione dovrebbe
considerarsi al sicuro, al contrario. Sarà una "stagione aperta" per
gli americani. Gli Stati Uniti hanno già ordinato una parziale evacuazione
dell'ambasciata di Baghdad e consigliato a tutti i cittadini americani di
lasciare immediatamente l'Iraq». Oltre a rafforzare la propria presenza in
Medio Oriente inviando circa 3.000 soldati (che vanno ad aggiungersi alle circa
750 unità inviate in Kuwait giorni prima) inquadrati nell'82° divisione
aviotrasportata come precauzione di fronte alle crescenti minacce a cui sono
esposte le forze americane nella regione. Minacce che
sono inevitabilmente destinate a moltiplicarsi in virtù del fatto che l'attacco
all'aeroporto di Baghdad è stato chiaramente condotto senza l'autorizzazione
del governo iracheno, che con ogni probabilità è richiederà alle forze
americane di togliere il disturbo. «Ciò – aggiunge Giraldi – renderà a sua
volta insostenibile la situazione per le rimanenti truppe statunitensi nella
vicina Siria. E costringerà anche altri Stati arabi nella regione a rivedere
l'ospitalità concessa alle forze armate statunitensi».
Ne consegue che l'attacco aereo
statunitense presenta non poche controindicazioni, non ultima quella di manifestare
la palese incoerenza di Donald Trump, che ha più volte affermato l'intenzione
di ridimensionare l'impegno militare degli Stati Uniti in Medio Oriente, e ribadire
ancora una volta agli occhi del mondo che, nonostante il loro atteggiarsi a
difensori del diritto internazionale, gli Usa continuano imperterriti ad
avvalersi dell'assassinio mirato come arma strategica e strumento
di lotta politica. Anche nel caso in cui l'obiettivo designato non sia
costituito da un talebano che si nasconde tra le montagne dell'Hindukush o da una
base di Hezbollah situata in prossimità del Golan, ma da un esponente
istituzionale di altissimo livello del potere pubblico di un Paese sovrano. D'altro
canto, sul piano più squisitamente geopolitico, per quanto la massiccia
presenza militare statunitense in Medio Oriente e la ricementata alleanza
strategica con Arabia Saudita ed Israele – i cui servizi hanno molto
probabilmente contribuito a fornire le informazioni decisive sugli spostamenti
di Soleimani – tenda ad accrescere negli apparati di potere di Washington un
forte senso di sicurezza, una mossa azzardata (o «reckless», per citare
l'esponente democratica Nancy Pelosi) come quella ordinata dall'amministrazione
Trump non potrà che produrre effetti contrari a quelli sperati. Lungi dallo
spezzarsi, la catena del potere sciita che connette tra
loro Iran, Iraq, Siria, Libano e Yemen ne uscirà rafforzata. A scapito delle
monarchie sunnite del Golfo Persico asserragliate dietro all'Arabia Saudita, da
cui si è peraltro sganciato oramai da qualche tempo il piccolo ma ricchissimo e
influente Qatar, che continua a resistere all'embargo saudita grazie
soprattutto al sostegno di Teheran.
Sorge allora spontaneo il
sospetto che uno dei moventi più concreti all'origine del raid aereo culminato
con la morte di Qassem Soleimani vada ricercato nelle dinamiche di politica
interna degli Stati Uniti. Non va infatti dimenticato che le elezioni
presidenziali sono ormai alle porte e Trump, alle prese con un maldestro ma
ostinato tentativo di impeachment
orchestrato dai democratici (che controllano la Camera ma non il Senato), ha
tutto l'interesse ad ingraziarsi il favore non solo di quella fetta di
elettorato repubblicano da sempre legato all'immagine degli Stati Uniti come
superpotenza globale in grado di imporre il proprio volere ai quattro angoli
del pianeta, ma anche del complesso militar-industriale (già gratificato con un
forte incremento delle spese militari) e dei potentissimi gruppi di influenza
filo-israeliani che sperano nell'adozione di una postura più aggressiva nei
confronti dell'Iran. Inoltre,
«eliminare un generale iraniano è un ottimo sistema per trasformare il
tentativo di impeachment in un atto antipatriottico. E se per caso gli iraniani
dovessero reagire, ecco una scusa perfetta per trasformare la campagna
elettorale in un referendum tra chi vuole difendere l'America (Trump,
ovviamente) e chi vuole invece arrendersi. Non a caso i democratici, che
in passato non si sono mai negati guerre e guerricciole, ora contestano il suo
operato anti-Iran».
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