Mentre
l'Iran sferra la sua rappresaglia contro gli Stati Uniti per l'uccisione del
generale Qassem Soleimani, prosegue la marcia a tappe forzate verso Tripoli delle
forze libiche al comando del generale Khalifa Haftar. Il quale, beneficiando
dell'appoggio di Egitto, Emirati Arabi Uniti e soprattutto Russia, sta
letteralmente travolgendo le raccogliticce milizie facenti capo al tripolino
Fayez al-Serraj, sostenuto invece da Unione Europea (con l'eccezione della
Francia che, a dispetto delle dichiarazioni di Macron, pende palesemente a
favore di Haftar), Qatar e, soprattutto, Turchia. Per il presidente Recep Tayyp
Erdoğan, la crisi libica si sta rivelando una vera e propria ancora di salvezza
perché gli permette di uscire dal vicolo cieco in cui era piombato sul fronte
interno, che lo vede costretto a far fronte a una complessiva perdita di
popolarità dovuta in buona parte al protrarsi di una situazione economicamente critica contrassegnata –
nonostante la parziale ripresa registrata nella seconda metà del 2019 – da un
calo prolungato di tutti i principali indicatori, a partire da Pil, produzione
industriale e reddito pro capite. Un contributo assai considerevole alla debacle
l'hanno indubbiamente apportato gli Usa, che con i loro dazi hanno incrementato
fortemente le pressioni sulla già deficitaria bilancia commerciale turca, con
conseguente inabissamento della lira e insorgere di devastanti fiammate inflattive.
Un primo tentativo di uscire
dall'empasse si verificò lo scorso settembre con le altisonanti dichiarazioni
di Erdoğan attestanti l'intenzione di dotare la Turchia dell'arma atomica. «Alcuni
Paesi hanno missili nucleari, ma l'Occidente insiste che noi non possiamo
averli. Ciò è inaccettabile», denunciò
il leader turco evocando la
minacciosa presenza dell'arsenale nucleare israeliano. A detta di Manlio Dinucci,
quello del presidente turco si configura come un «progetto non facile, ma non
irrealizzabile. La Turchia dispone di avanzate tecnologie militari, fornite in
particolare da aziende italiane, soprattutto la Leonardo. Possiede depositi di
uranio. Ha esperienza nel campo dei reattori di ricerca, forniti in particolare
dagli Usa. Ha avviato la realizzazione di una propria industria
elettronucleare, acquistando alcuni reattori da Russia, Giappone, Francia e
Cina. Secondo alcune fonti, la Turchia potrebbe essersi già procurata, sul
"mercato nero nucleare", centrifughe per l'arricchimento dell'uranio.
L'annuncio di Erdoğan che la Turchia vuole divenire una potenza nucleare,
interpretato da alcuni come un semplice gioco al rialzo per avere maggiore peso
nella Nato, non è quindi da sottovalutare».
Un ulteriore sforzo finalizzato ad
aggirare la congiuntura negativa si verificò a poche settimane di distanza con l'operazione
militare Primavera di Pace, condotta nel nord-est della Siria al fine di
ricacciare indietro i peshmerga e insediare forzatamente centinaia di migliaia
di profughi siriani provvisoriamente ospitati in Turchia nella striscia di territorio
profonda circa 30 km e lunga 480 km amministrata dai kurdi. Per l'area da
"ripopolare", Ankara aveva
già in serbo un ambizioso progetto urbanistico da circa 27 miliardi di
dollari implicante la costruzione di abitazioni, scuole, moschee ed ospedali
alla cui realizzazione avrebbe dovuto contribuire anche l'Unione Europea. Secondo
i calcoli di Erdoğan, respingere i kurdi a distanza di sicurezza dal confine
turco e stimolare l'arrancante economia nazionale con un grande programma keynesiano
da applicare nella zona di frontiera con la Siria avrebbe da un lato ricompattato
il Paese sotto la bandiera del patriottismo e dall'altro innescato una ripresa
economica in grado di placare i serpeggianti malumori interni. Senonché, la
spedizione nel nord-est della Siria, concordata con Mosca in cambio del via
libera alla liberazione di Idlib dai gruppi jihadisti ivi annidati, produsse
l'inaspettato effetto di riproporre l'irrisolta questione islamista. Il governo
di Ankara, in altre parole, si trovò a dover scegliere: scaricare e abbandonare
al loro destino le milizie jihadiste come il fronte al-Nusra, armate,
addestrate, finanziate e sfruttate per anni dalla stessa Turchia come forza d'urto
per rovesciare il governo di Bashar al-Assad, e quindi condannare automaticamente
il Paese a subire un'ondata di attentati terroristici analoga a quella del 2014?
Oppure inanellare l'ennesimo voltafaccia violando gli accordi raggiunti con
Putin – che vanno ben oltre la questione siriana, poiché riguardano la
fornitura dei sistemi anti-missile S-400, la realizzazione del Turkish Stream e
molto altro ancora – e perdere così l'unica sponda su cui Ankara può contare
per controbilanciare la montante pressione statunitense?
La soluzione
al dilemma si è presentata con gli sviluppi della crisi libica, che ha visto al-Serraj,
rimanere a secco di armi, effettivi e iniziativa militare soprattutto in
seguito alla allo schieramento di ex specnatz
russi, di droni emiratini e di caccia egiziani a supporto dell'esercito cirenaico
agli ordini di Haftar intento a cingere d'assedio la capitale. Quale occasione
migliore di riciclare come fanteria a disposizione di al-Serraj i gruppi
jihadisti impiegati in Siria e divenuti oramai sempre più scomodi e
ingombranti? Di qui la decisione di riattivare la stessa ratline di cui, a partire dal settembre 2012, la Cia si
era servita per trasferire missili anticarro dalla Libia ormai "liberata"
da Muhammar Gheddafi alla Siria in fiamme attraverso navi battenti bandiera
turca. Il contro-flusso di combattenti islamisti innescato da Ankara va da un
lato a risollevare, seppur in maniera molto limitata e parziale, le sorti del
conflitto libico offrendo allo stesso tempo a Erdoğan la possibilità di
ritagliarsi un ruolo di grande rilievo geopolitico nella sponda sud del
Mediterraneo. E di inserirsi pertanto nel "grande gioco" energetico
che vede nel quadrante orientale del Mare Nostrum, che ospita giacimenti del
calibro di Afrdoite, Tamar, Leviathan, Karish, Tanin e Zohr, uno dei principali
teatri di scontro. Dal quale la Turchia era stata originariamente tagliata
fuori per mezzo dell'accordo siglato di recente tra Israele, Grecia e Cipro e
benedetto dagli Usa per la realizzazione del gasdotto EastMed, che ambisce a soddisfare
il 10% circa del fabbisogno energetico europeo. Un progetto da 6 miliardi di
euro che beneficia del sostegno politico statunitense perché va ad alleggerire la
dipendenza del "vecchio continente" dalle forniture russe, e che
indebolisce giocoforza la posizione turca in quanto delinea un nuovo asse
marittimo formato da avversari vecchi (Grecia e Cipro) e nuovi (Israele ed
Egitto) destinato a vanificare la vecchia e mai sopita ambizione di Erdoğan ad accreditare la Turchia al
rango di hub energetico di
riferimento a cavallo tra Asia ed Europa, come sottolineato
dal presidente dell'Istituto di Studi Strategici di Gerusalemme Efraim Inbar. È
in tale contesto che si inseriscono il frenetico attivismo della marina militare
turca – spintasi
addirittura a sconfinare nello specchio di mare che Eni e Totale avevano in
concessione al largo di Cipro per consentire alla nave di perforazione Yavuz di
procedere all'esplorazione del pozzo di Guzelyurt-1 – e l'intesa tra Ankara e il
governo di Tripoli che ridisegna la geografia energetica del Mediterraneo in
maniera fortemente
confliggente con quella fondata sui confini marittimi stabiliti da Israele,
Cipro, Grecia ed Egitto, perché concepita con lo scopo palese di sabotare la realizzazione
del gasdotto EastMed. Nello specifico, l'accordo attribuisce ad Ankara la giurisdizione
su un'ampissima porzione di Mediterraneo orientale rivendicata da Grecia e
Cipro che estenderebbe di oltre il 30% i confini della piattaforma continentale
turca.
La concretizzazione
dell'ambizioso disegno strategico di Erdoğan appare tuttavia gravata da due pesantissime
incognite strettamente connesse tra di loro, costituite dalla precarietà di
al-Serraj e, soprattutto, dal fatto che, come evidenziato
dallo storico Soner Cagaptay, per la Turchia «sarà assai difficile sostenere
una presenza militare in Libia senza ottenere una sorta di via libera da parte
di Vladimir Putin». L'incontro
di Istanbul tra Erdoğan e il presidente russo in occasione della cerimonia inaugurale
del gasdotto Turkish Stream – rispetto al quale l'EastMed rappresenta la
principale e più insidiosa alternativa – potrebbe riservare qualche sorpresa in
proposito, come ad esempio una tregua imposta dall'alto destinata a
porre le basi per una spartizione de
facto della Libia tra le regioni di Tripolitania e Cirenaica.
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