mercoledì 8 gennaio 2020

Erdoğan gioca la carta libica


Mentre l'Iran sferra la sua rappresaglia contro gli Stati Uniti per l'uccisione del generale Qassem Soleimani, prosegue la marcia a tappe forzate verso Tripoli delle forze libiche al comando del generale Khalifa Haftar. Il quale, beneficiando dell'appoggio di Egitto, Emirati Arabi Uniti e soprattutto Russia, sta letteralmente travolgendo le raccogliticce milizie facenti capo al tripolino Fayez al-Serraj, sostenuto invece da Unione Europea (con l'eccezione della Francia che, a dispetto delle dichiarazioni di Macron, pende palesemente a favore di Haftar), Qatar e, soprattutto, Turchia. Per il presidente Recep Tayyp Erdoğan, la crisi libica si sta rivelando una vera e propria ancora di salvezza perché gli permette di uscire dal vicolo cieco in cui era piombato sul fronte interno, che lo vede costretto a far fronte a una complessiva perdita di popolarità dovuta in buona parte al protrarsi di una situazione economicamente critica contrassegnata – nonostante la parziale ripresa registrata nella seconda metà del 2019 – da un calo prolungato di tutti i principali indicatori, a partire da Pil, produzione industriale e reddito pro capite. Un contributo assai considerevole alla debacle l'hanno indubbiamente apportato gli Usa, che con i loro dazi hanno incrementato fortemente le pressioni sulla già deficitaria bilancia commerciale turca, con conseguente inabissamento della lira e insorgere di devastanti fiammate inflattive.
Un primo tentativo di uscire dall'empasse si verificò lo scorso settembre con le altisonanti dichiarazioni di Erdoğan attestanti l'intenzione di dotare la Turchia dell'arma atomica. «Alcuni Paesi hanno missili nucleari, ma l'Occidente insiste che noi non possiamo averli. Ciò è inaccettabile», denunciò il leader turco evocando la minacciosa presenza dell'arsenale nucleare israeliano. A detta di Manlio Dinucci, quello del presidente turco si configura come un «progetto non facile, ma non irrealizzabile. La Turchia dispone di avanzate tecnologie militari, fornite in particolare da aziende italiane, soprattutto la Leonardo. Possiede depositi di uranio. Ha esperienza nel campo dei reattori di ricerca, forniti in particolare dagli Usa. Ha avviato la realizzazione di una propria industria elettronucleare, acquistando alcuni reattori da Russia, Giappone, Francia e Cina. Secondo alcune fonti, la Turchia potrebbe essersi già procurata, sul "mercato nero nucleare", centrifughe per l'arricchimento dell'uranio. L'annuncio di Erdoğan che la Turchia vuole divenire una potenza nucleare, interpretato da alcuni come un semplice gioco al rialzo per avere maggiore peso nella Nato, non è quindi da sottovalutare».
Un ulteriore sforzo finalizzato ad aggirare la congiuntura negativa si verificò a poche settimane di distanza con l'operazione militare Primavera di Pace, condotta nel nord-est della Siria al fine di ricacciare indietro i peshmerga e insediare forzatamente centinaia di migliaia di profughi siriani provvisoriamente ospitati in Turchia nella striscia di territorio profonda circa 30 km e lunga 480 km amministrata dai kurdi. Per l'area da "ripopolare", Ankara aveva già in serbo un ambizioso progetto urbanistico da circa 27 miliardi di dollari implicante la costruzione di abitazioni, scuole, moschee ed ospedali alla cui realizzazione avrebbe dovuto contribuire anche l'Unione Europea. Secondo i calcoli di Erdoğan, respingere i kurdi a distanza di sicurezza dal confine turco e stimolare l'arrancante economia nazionale con un grande programma keynesiano da applicare nella zona di frontiera con la Siria avrebbe da un lato ricompattato il Paese sotto la bandiera del patriottismo e dall'altro innescato una ripresa economica in grado di placare i serpeggianti malumori interni. Senonché, la spedizione nel nord-est della Siria, concordata con Mosca in cambio del via libera alla liberazione di Idlib dai gruppi jihadisti ivi annidati, produsse l'inaspettato effetto di riproporre l'irrisolta questione islamista. Il governo di Ankara, in altre parole, si trovò a dover scegliere: scaricare e abbandonare al loro destino le milizie jihadiste come il fronte al-Nusra, armate, addestrate, finanziate e sfruttate per anni dalla stessa Turchia come forza d'urto per rovesciare il governo di Bashar al-Assad, e quindi condannare automaticamente il Paese a subire un'ondata di attentati terroristici analoga a quella del 2014? Oppure inanellare l'ennesimo voltafaccia violando gli accordi raggiunti con Putin – che vanno ben oltre la questione siriana, poiché riguardano la fornitura dei sistemi anti-missile S-400, la realizzazione del Turkish Stream e molto altro ancora – e perdere così l'unica sponda su cui Ankara può contare per controbilanciare la montante pressione statunitense?
La soluzione al dilemma si è presentata con gli sviluppi della crisi libica, che ha visto al-Serraj, rimanere a secco di armi, effettivi e iniziativa militare soprattutto in seguito alla allo schieramento di ex specnatz russi, di droni emiratini e di caccia egiziani a supporto dell'esercito cirenaico agli ordini di Haftar intento a cingere d'assedio la capitale. Quale occasione migliore di riciclare come fanteria a disposizione di al-Serraj i gruppi jihadisti impiegati in Siria e divenuti oramai sempre più scomodi e ingombranti? Di qui la decisione di riattivare la stessa ratline di cui, a partire dal settembre 2012, la Cia si era servita per trasferire missili anticarro dalla Libia ormai "liberata" da Muhammar Gheddafi alla Siria in fiamme attraverso navi battenti bandiera turca. Il contro-flusso di combattenti islamisti innescato da Ankara va da un lato a risollevare, seppur in maniera molto limitata e parziale, le sorti del conflitto libico offrendo allo stesso tempo a Erdoğan la possibilità di ritagliarsi un ruolo di grande rilievo geopolitico nella sponda sud del Mediterraneo. E di inserirsi pertanto nel "grande gioco" energetico che vede nel quadrante orientale del Mare Nostrum, che ospita giacimenti del calibro di Afrdoite, Tamar, Leviathan, Karish, Tanin e Zohr, uno dei principali teatri di scontro. Dal quale la Turchia era stata originariamente tagliata fuori per mezzo dell'accordo siglato di recente tra Israele, Grecia e Cipro e benedetto dagli Usa per la realizzazione del gasdotto EastMed, che ambisce a soddisfare il 10% circa del fabbisogno energetico europeo. Un progetto da 6 miliardi di euro che beneficia del sostegno politico statunitense perché va ad alleggerire la dipendenza del "vecchio continente" dalle forniture russe, e che indebolisce giocoforza la posizione turca in quanto delinea un nuovo asse marittimo formato da avversari vecchi (Grecia e Cipro) e nuovi (Israele ed Egitto) destinato a vanificare la vecchia e mai sopita ambizione di Erdoğan ad accreditare la Turchia al rango di hub energetico di riferimento a cavallo tra Asia ed Europa, come sottolineato dal presidente dell'Istituto di Studi Strategici di Gerusalemme Efraim Inbar. È in tale contesto che si inseriscono il frenetico attivismo della marina militare turca – spintasi addirittura a sconfinare nello specchio di mare che Eni e Totale avevano in concessione al largo di Cipro per consentire alla nave di perforazione Yavuz di procedere all'esplorazione del pozzo di Guzelyurt-1 – e l'intesa tra Ankara e il governo di Tripoli che ridisegna la geografia energetica del Mediterraneo in maniera fortemente confliggente con quella fondata sui confini marittimi stabiliti da Israele, Cipro, Grecia ed Egitto, perché concepita con lo scopo palese di sabotare la realizzazione del gasdotto EastMed. Nello specifico, l'accordo attribuisce ad Ankara la giurisdizione su un'ampissima porzione di Mediterraneo orientale rivendicata da Grecia e Cipro che estenderebbe di oltre il 30% i confini della piattaforma continentale turca.
La concretizzazione dell'ambizioso disegno strategico di Erdoğan appare tuttavia gravata da due pesantissime incognite strettamente connesse tra di loro, costituite dalla precarietà di al-Serraj e, soprattutto, dal fatto che, come evidenziato dallo storico Soner Cagaptay, per la Turchia «sarà assai difficile sostenere una presenza militare in Libia senza ottenere una sorta di via libera da parte di Vladimir Putin». L'incontro di Istanbul tra Erdoğan e il presidente russo in occasione della cerimonia inaugurale del gasdotto Turkish Stream – rispetto al quale l'EastMed rappresenta la principale e più insidiosa alternativa – potrebbe riservare qualche sorpresa in proposito, come ad esempio una tregua imposta dall'alto destinata a porre le basi per una spartizione de facto della Libia tra le regioni di Tripolitania e Cirenaica.

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