martedì 7 gennaio 2020

Droni, bombe, navi, ecc.: i pericoli della centralità che riveste l'Italia rispetto alla strategia militare degli Usa

Che il recente attacco aereo statunitense contro l'aeroporto di Baghdad responsabile della morte del generale Qassem Soleimani sia stato effettivamente condotto con droni decollati da Sigonella è altamente improbabile. La capitale irachena dista infatti dalla base siciliana a disposizione degli Stati Uniti oltre 2.200 km, mentre il modello di drone Reaper, armabile con missili e bombe a guida laser e satellitare, impiegato per il raid ha un raggio d'azione di 1.850 km. Le voci circolate in questi giorni in merito a questa possibilità, così come la notizia relativa alla decisione statunitense di ridispiegare alcune unità della 173° brigata aviotrasportata di stanza a Vicenza per rafforzare le difese delle ambasciate statunitensi situate nelle capitali del Medio Oriente ritenute maggiormente esposte al pericolo di rappresaglia iraniana, hanno tuttavia avuto l'effetto di riaprire gli interrogativi circa l'uso dello spazio aereo italiano e delle basi distribuite nella penisola. Nonché di evidenziare la centralità dell'Italia rispetto alla strategie statunitensi.
A prescindere dal fatto che sia stata o meno la base di partenza dei droni tramite i quali è stato effettuato l'attacco in Iraq, Sigonella rimane la principale base di lancio per operazioni del genere non solo perché ospita la Joint Tactical Ground Station (Jtags), una delle cinque stazioni satellitari che opera nell'ambito del cosiddetto scudo anti-missili e che adempie alle funzioni sia difensive che offensive, ma anche per via della sua prossimità a Niscemi (Caltanissetta), dove si trova il Mobile User Objective System (Muos). Vale a dire un sistema di comunicazioni satellitari – pienamente operativo dalla scorsa estate – sviluppato dalla Lockheed Martin per conto della Us Navy, che si compone di quattro stazioni terrestri ciascuna delle quali collegata a sua volta un satellite in orbita geostazionaria, e connesse allo stesso tempo l'una all'altra per tramite di una rete terrestre e sottomarina composta da cavi in fibra ottica. Assieme a quelle impiantate nella Hawaii, in Virginia e in Australia, l'installazione di Niscemi consente agli Usa di trasmettere a frequenza ultra-alta messaggi vocali, filmati e cablogrammi in maniera criptata e simultanea integrando così in un'unica rete di comando e comunicazioni facente capo al Pentagono tutte le unità e i mezzi da combattimento, droni compresi.
Proprio a Sigonella, non a caso, è recentemente atterrato dopo un volo di 22 ore partito dalla base aerea di Palmdale, in California, il primo drone del sistema Alliance Ground Surveillance (Ags) della Nato. Trattasi di una versione potenziata del modello Global Hawk, in grado di volare per 16.000 km a 18.000 metri di altezza e pilotabile da remoto. Assieme ad altri quattro velivoli dello stesso tipo e con il supporto di numerose stazioni terrestri, il drone in oggetto permetterà all'Alleanza Atlantica di monitorare vastissime aree terrestre e marittime ricomprese tra Mediterraneo, Medio Oriente, Africa settentrionale e Mar Nero, trasferendo agli operatori disseminati in oltre venti postazioni i dati raccolti da analizzare e immettere successivamente nella rete criptata facente capo al Comando Supremo Alleato in Europa. Il sistema Ags, che diverrà operativo entro il prossimo giugno, sarà integrato con l'hub di Direzione Strategica per il Sud, il centro di spionaggio focalizzato su Medio Oriente e Africa situato a Lago Patria, nei dintorni di Napoli, dove ha peraltro sede – presso Capodichino – il Comando delle Forze navali Usa in Europa da cui dipende la Sesta Flotta, con base a Gaeta, che, come puntualizzato dalla vice-ammiraglio Usa Lisa Franchetti, opera «dal Polo Nord al Polo Sud». I costi di realizzazione del mantenimento del sistema Ags – sviluppato in buona parte da Northrop Grummann – sono stati sostenuti da ben quindici membri dell'Alleanza Atlantica. Tra cui l'Italia, che oltre a contribuire con oltre 200 milioni di euro e a fornire la principale base operativa, ha recentemente stanziato circa 250 milioni di euro addizionali per l'acquisto di uno stormo di droni Reaper e Predator. Compresi gli altri velivoli senza pilota già acquistati e quelli di cui si prevede la dotazione, la spesa complessiva per i droni militari sostenuta dall'Italia si attesta attorno al miliardo e mezzo di euro, a cui vanno sommato i costi operativi e di manutenzione.
Non va inoltre dimenticato l'esito prodotto dall'incontro dello scorso ottobre tra il primo ministro Giuseppe Conte e il segretario di Stato Mike Pompeo, recatosi a Roma per richiamare l'attenzione del primo ministro in merito al ritardo sui pagamenti dei caccia stealth F-35, fabbricati dalla Lockheed Martin, già acquistati e in larghissima parte consegnati all'Italia, ed esercitare forti pressioni sul suo interlocutore affinché si adoperasse per sbloccare un ulteriore ordine d'acquisto. La vicenda era divenuta particolarmente spinosa quantomeno a partire dal 2012, quando l'Italia decise di rivedere i termini dell'ordine da 131 velivoli effettuato nel 1998 dal governo Prodi, limitando gli acquisti a "soli" 90 aerei. Di cui 30, da ripartire equamente tra Marina e Aeronautica, nella versione B a decollo corto e atterraggio convenzionale, e i restanti 60 nella versione A a decollo e atterraggio convenzionale, su cui possono essere montate le nuove bombe atomiche B61-12. L'Italia si aggiudicò allora un ruolo non secondario nella realizzazione fisica degli aerei, visto che i processi di ammodernamento della fusoliera, di costruzione delle ali, di assemblaggio delle componenti e del collaudo dei modelli destinati a Italia e Olanda si sarebbero effettuati presso il complesso industriale piemontese di Faco di Cameri, appartenente al gruppo Leonardo-Finmeccanica. Le cui linee di produzione presenti negli stabilimenti di Foggia, Nola e Venegono si sarebbero occupate anche di fabbricare le ali per gli F-35 assemblati negli Stati Uniti.
La situazione, già surriscaldatasi per effetto della revisione del contratto d'ordine, andò complicandosi ulteriormente con l'insediamento del governo formato da Lega e Movimento 5 Stelle. La compagine grillina si era infatti sempre espressa in maniera fortemente critica nei confronti del progetto, ed aveva pertanto messo seriamente in conto la possibilità di congelare gli ordinativi. Senonché, una volta presso atto dell'entità delle penali che si sarebbero dovute pagare in caso di blocco dell'ordine, il governo decise di tirare dritto e di onorare i termini del contratto. Lo scorso giugno, il ministro della Difesa Elisabetta Trenta (del Movimento 5 Stelle) riferì che 13 dei 14 aerei consegnati da Lockheed Martin erano stati interamente finanziati, e che altri 13 sarebbero stati acquistati entro il 2022. Senonché, con la caduta del governo "giallo-verde" e la nascita dell'esecutivo costituito da Movimento 5 Stelle e Partito Democratico, i grillini riproposero di rinegoziare il programma di acquisto degli F-35, incassando una sonora bocciatura da parte del ministro della Difesa Lorenzo Guerini che lasciava chiaramente presagire la piega che avrebbero preso gli eventi. Non a caso, dopo il suo colloquio con il segretario di Stato, il premier Conte non si limitò ad assicurare che l'Italia avrebbe tenuto fede ai patti in relazione agli F-35, ma si spinse a raccogliere l'esortazione di Pompeo e del segretario della Nato Jens Stoltenberg ad incrementare gli investimenti nella difesa collettiva, assumendo l'impegno ad aumentare le spese militari di circa 7 miliardi di euro a partire dal 2020. Nel 2019, gli stanziamenti bellici erano rimasti fermi ai livelli dell'anno precedente, cioè a 25 miliardi di euro. Di cui 21 rientrano nel bilancio per la Difesa e 3 in quello per lo Sviluppo Economico, a cui va aggiunto un miliardo per il finanziamento delle missioni all'estero. Aggiungere a questa cifra 7 miliardi in più, pari a quasi mezzo punto di Pil, significa aumentare le spese militari di circa il 30% in un solo colpo.
Tra di esse rientrano gli investimenti necessari a sostenere il massiccio piano di riorganizzazione delle infrastrutture di Camp Darby, vale a dire il più grande arsenale a disposizione di Washington situato al di fuori dei confini statunitensi. La base, che sorge tra Pisa e Livorno e che in passato – come acclarato dalle inchieste dei giudici Felice Casson e Carlo Mastelloni – ha funto da centro nevralgico della rete atlantica costituita dalla Cia e dal Sifar nel quadro dell'Operazione Gladio, si compone di ben 125 bunker contenenti di sicuro oltre un milione di proiettili di artiglieria, bombe per aerei e missili, carri armati, veicoli e altri materiali militari, e forse, sostengono alcuni, ordigni nucleari. Come dichiarato dal colonnello Erik Berdy, a capo dello Us Army Italy, Camp Darby ricopre un ruolo chiave per la strategia militare statunitensi, perché consente il rifornimento in tempi rapidi delle forze terrestri e aree statunitensi operanti nei teatri europeo, africano e mediorientale. Non a caso, la base – finita peraltro al centro della tragica vicenda della Moby Prince – è stata ampiamente utilizzata dagli Usa durante le guerre in Iraq, Jugoslavia, Libia, Afghanistan, Siria e Yemen. Il recente progetto di riorganizzazione di Camp Darby scaturisce dal fatto che il volume sempre crescente di armi in transito per la base aveva reso insufficiente il vecchio collegamento via canale e via strada con il porto di Livorno e l'aeroporto di Pisa. Nel dettaglio, il piano prevede la realizzazione di una nuova linea ferroviaria concepita per collegare, attraverso un punte metallico girevole da costruire sul Canale dei Navicelli, la stazione di Tombolo (tra Livorno e Pisa) a un nuovo terminale di carico e scarico alto quasi 20 metri e composto da quattro binari da 175 metri l'uno in grado di accogliere complessivamente ben 36 vagoni  e di permettere il transito di due convogli al giorno che collegano la base al porto. La struttura sarà inoltre connessa al deposito di munizioni con strade dedicate ai grandi autocarri, su cui armi, munizioni e materiale militare di vario genere in arrivo o in partenza – sempre tramite rotaia – verranno caricati tramite appositi carrelli sposta-container. È interessante notare che, in base a un accordo specifico siglato tra Washington e Roma, circa 34 ettari inutilizzati di cui si componeva la base (pari a circa il 3% della sua estensione complessiva) sono stati restituiti al Ministero della Difesa italiano affinché vi installasse il Comando delle Forze Speciali dell'Esercito (Comfose, che dal 2014 riunisce il 9° Reggimento d'assalto Col Moschin, il 185% Reggimento acquisizione obiettivi Folgore, il 28° Reggimento comunicazioni Pavia e il 4° Reggimento alpini paracadutisti Ranger). Vale a dire il centro di addestramento che sforna le forze tradizionalmente impiegate nelle operazioni coperte condotte in teatri particolarmente complessi come quello afghano. L'intesa risulta del tutto conforme con quanto annunciato durante la cerimonia inaugurale del Comfose del 2014, quando le autorità presenti dichiararono che il Comando avrebbe mantenuto un «collegamento costante con lo Us Army Special Operation Command». Di concerto con il quale, ha spiegato il colonnello Berdy, si svolgevano già regolari corsi d'addestramento congiunti di militari statunitensi e italiani. Il trasferimento del Comfose a ridosso di Camp Darby risulta funzionale a realizzare un maggiore grado di integrazione tra le forze speciali italiane e quelle statunitensi, favorendo l'interoperabilità in operazioni coperte organizzate e condotte dagli Usa.
Le basi di Aviano e Ghedi costituiscono invece due tasselli fondamentali della strategia nucleare del Pentagono, che vi schiera non solo decine di caccia ma anche e soprattutto le bombe nucleari B61, che a partire da quest'anno saranno sostituite dalle B61-12, ordigni che offrono la possibilità di adeguare la potenza dell'esplosione al tipo di obiettivo da colpire, dal momento che i suoi ideatori hanno pensato di approntarne differenti versioni che vanno da 0,3 kilotoni a 50 kilotoni (pari ad oltre tre volte la potenza della bomba sganciata su Hiroshima). La bomba con la potenza massima è in grado di radere al suolo un'intera città, mentre quella minima si adatta a distruggere un'area più limitata, provocando una radioattività maggiormente contenuta. La B61-12 è inoltre in grado di penetrare in profondità per distruggere i bunker dei centri di comando e altre strutture sotterranee del nemico. A differenza delle ormai obsolete B61-4, che si sganciano in verticale sull'obiettivo, le B61-12 possono essere lanciate a circa 100 km ed essere teleguidate sul bersaglio attraverso un sistema satellitare, e risultano pienamente compatibili non solo con il velivolo B-2 Spirit, ma anche con gli F-16, i Tornado Pa-200 e gli F-35.
Altre B61-12 saranno inoltre trasferite presso la base di Aviano, che i lavori di ampliamento attualmente in corso per attrezzarla ad ospitare la nuova tipologia di bomba rendono di fatto la candidata perfetta ad accogliere le circa 50 testate atomiche che gli Usa custodiscono attualmente presso la base turca di Incirlik. Le recenti tensioni tra gli Stati Uniti e il presidente Recep Tayyp Erdoğan – reo di aver concordato con la Russia la costruzione del gasdotto Turkish Stream oltre che di aver ordinato a Mosca i sistemi anti-missile S-400 – avrebbero infatti indotto Washington a valutare la possibilità di ridislocare le proprie bombe in un Paese ritenuto maggiormente affidabile. E la scelta potrbbe verosimilmente ricadere proprio su Camp Darby come suggerito da un'analisi dell'autorevole Bulletin of Atomic Scientists e confermato dal generale a riposo Chuck Wald della Us Air Force in una intervista a Bloomberg. Dal canto suo, il coordinatore nazionale dei Verdi Angelo Bonelli, ha colto l'occasione per richiedere al governo la reale consistenza della notizia e di sottoporre immediatamente la questione all'attenzione del Parlamento, perché l'Italia – in cui sono già stoccate oltre settanta ordigni atomici in violazione del Trattato di Non Proliferazione a cui il "bel Paese" aderisce – rischia di essere «trasformata nel maggiore deposito di armi nucleari d'Europa» e base avanzata delle forze nucleari Usa, che stanno peraltro preparandosi a schierarvi missili nucleari a gittata intermedia con base a terra identici in  tutto e per tutto agli euromissili eliminati con il Trattato Inf firmato nel 1987 da Stati Uniti e Unione Sovietica. Lo stesso trattato da cui l'amministrazione Trump si è recentemente ritirata e che ha costretto ad imprimere una forte accelerata al suo programma missilistico, la cui punta di lancia è costituita da missili ipersonici – in grado di sfuggire a qualsiasi sistema intercettore attualmente conosciuto, come affermato in un recente saggio di grande interesse e riconosciuto apertamente dallo stesso vicepresidente degli Stati Maggiori Riuniti John Hyten – che verranno inesorabilmente puntati contro l'Europa.
La pericolosa esposizione del "vecchio continente" determinata dalla centralità che la dottrina nucleare del Pentagono attribuisce a questo teatro strategico tende ora a aumentare con il recente raid aereo in Iraq, nonostante Trump abbia imposto il silenzio riguardo ai dettagli dell'operazione per evitare l'insorgere di problemi con i Paesi alleati schierati in prima linea nelle azioni militari condotte con i droni. A partire proprio dall'Italia, che oltre ad avere in Sigonella la principale piattaforma di lancio e centro strategico per le trasmissioni-guida dei veicoli senza pilota Usa mantiene contingenti militari in Iraq, Afghanistan, Libano e Corno d'Africa (dove imprese italiane sono al lavoro per ampliare le piste e gli hangar che ospitano i Reaper con cui gli Usa conducono le loro operazioni in Somalia, Yemen e Iraq) che l'assassinio di Soleimani ad opera degli Stati Uniti espone inesorabilmente al rischio di ritorsioni. Senza contare che l'escalation tra Stati Uniti ed Iran che si sta venendo a determinare «comporterà il trasferimento in Medio Oriente dei carri armati e delle munizioni stoccati nell'hub toscano di Camp Darby via Livorno e aeroscalo di Pisa. Le trasmissioni ai droni via Sigonella e Muos di Niscemi, la mobilitazione di tutte le maggiori installazioni Usa e Nato in Italia, l'allarme rosso nelle basi operative delle forze armate in Medio Oriente e Africa, sono la prova evidente che la frontiera italiana si è proiettata ormai a ridosso di Teheran e Baghdad».

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