Che il
recente attacco aereo statunitense contro l'aeroporto di Baghdad responsabile
della morte
del generale Qassem Soleimani sia stato effettivamente condotto con droni decollati
da Sigonella è altamente improbabile. La capitale irachena dista infatti dalla
base siciliana a disposizione degli Stati Uniti oltre 2.200 km, mentre il
modello di drone Reaper, armabile con missili e bombe a guida laser e
satellitare, impiegato per il raid ha un raggio d'azione di 1.850 km. Le voci circolate
in questi giorni in merito a questa possibilità, così come la notizia relativa
alla decisione statunitense di ridispiegare alcune unità della 173° brigata
aviotrasportata di stanza a Vicenza per rafforzare le difese delle ambasciate
statunitensi situate nelle capitali del Medio Oriente ritenute maggiormente
esposte al pericolo di rappresaglia iraniana, hanno tuttavia avuto l'effetto di
riaprire gli interrogativi circa l'uso dello spazio aereo italiano e delle basi
distribuite nella penisola. Nonché di evidenziare la centralità dell'Italia
rispetto alla strategie statunitensi.
A
prescindere dal fatto che sia stata o meno la base di partenza dei droni
tramite i quali è stato effettuato l'attacco in Iraq, Sigonella rimane la
principale base di lancio per operazioni del genere non solo perché ospita la
Joint Tactical Ground Station (Jtags), una delle cinque stazioni satellitari
che opera nell'ambito del cosiddetto scudo anti-missili e che adempie alle
funzioni sia difensive che offensive, ma anche per via della sua prossimità a
Niscemi (Caltanissetta), dove si trova il Mobile User Objective System (Muos).
Vale a dire un sistema di comunicazioni satellitari – pienamente operativo
dalla scorsa estate – sviluppato dalla Lockheed Martin per conto della Us Navy,
che si compone di quattro stazioni terrestri ciascuna delle quali collegata a
sua volta un satellite in orbita geostazionaria, e connesse allo stesso tempo
l'una all'altra per tramite di una rete terrestre e sottomarina composta da
cavi in fibra ottica. Assieme a quelle impiantate nella Hawaii, in Virginia e
in Australia, l'installazione di Niscemi consente agli Usa di trasmettere a
frequenza ultra-alta messaggi vocali, filmati e cablogrammi in maniera criptata
e simultanea integrando così in un'unica rete di comando e comunicazioni
facente capo al Pentagono tutte le unità e i mezzi da combattimento, droni compresi.
Proprio a
Sigonella, non a caso, è recentemente atterrato dopo un volo di 22 ore partito
dalla base aerea di Palmdale, in California, il primo drone del sistema
Alliance Ground Surveillance (Ags) della Nato. Trattasi di una versione
potenziata del modello Global Hawk, in grado di volare per 16.000 km a 18.000
metri di altezza e pilotabile da remoto. Assieme ad altri quattro velivoli
dello stesso tipo e con il supporto di numerose stazioni terrestri, il drone in
oggetto permetterà all'Alleanza Atlantica di monitorare vastissime aree
terrestre e marittime ricomprese tra Mediterraneo, Medio Oriente, Africa
settentrionale e Mar Nero, trasferendo agli operatori disseminati in oltre
venti postazioni i dati raccolti da analizzare e immettere successivamente
nella rete criptata facente capo al Comando Supremo Alleato in Europa. Il
sistema Ags, che diverrà operativo entro il prossimo giugno, sarà integrato con
l'hub di Direzione Strategica per il Sud, il centro di spionaggio focalizzato
su Medio Oriente e Africa situato a Lago Patria, nei dintorni di Napoli, dove
ha peraltro sede – presso Capodichino – il Comando delle Forze navali Usa in
Europa da cui dipende la Sesta Flotta, con base a Gaeta, che, come puntualizzato
dalla vice-ammiraglio Usa Lisa Franchetti, opera «dal Polo Nord al Polo Sud». I
costi di realizzazione del mantenimento del sistema Ags – sviluppato in buona
parte da Northrop Grummann – sono stati sostenuti da ben quindici membri
dell'Alleanza Atlantica. Tra cui l'Italia, che oltre a contribuire con oltre
200 milioni di euro e a fornire la principale base operativa, ha recentemente
stanziato circa 250 milioni di euro addizionali per l'acquisto di uno stormo di
droni Reaper e Predator. Compresi gli altri velivoli senza pilota già
acquistati e quelli di cui si prevede la dotazione, la spesa complessiva per i
droni militari sostenuta dall'Italia si attesta attorno al miliardo e mezzo di
euro, a cui vanno sommato i costi operativi e di manutenzione.
Non va
inoltre dimenticato l'esito prodotto dall'incontro dello scorso ottobre tra il
primo ministro Giuseppe Conte e il segretario di Stato Mike Pompeo, recatosi a
Roma per richiamare
l'attenzione del primo ministro in merito al ritardo sui pagamenti dei
caccia stealth F-35, fabbricati dalla Lockheed Martin, già acquistati e in
larghissima parte consegnati all'Italia, ed esercitare forti pressioni sul suo
interlocutore affinché si adoperasse per sbloccare un ulteriore ordine
d'acquisto. La vicenda era divenuta particolarmente spinosa quantomeno a
partire dal 2012, quando l'Italia decise di rivedere i termini dell'ordine da
131 velivoli effettuato nel 1998 dal governo Prodi, limitando gli acquisti a
"soli" 90 aerei. Di cui 30, da ripartire equamente tra Marina e
Aeronautica, nella versione B a decollo corto e atterraggio convenzionale, e i
restanti 60 nella versione A a decollo e atterraggio convenzionale, su cui
possono essere montate le nuove bombe atomiche B61-12. L'Italia si aggiudicò
allora un ruolo non secondario nella realizzazione fisica degli aerei, visto
che i processi di ammodernamento della fusoliera, di costruzione delle ali, di
assemblaggio delle componenti e del collaudo dei modelli destinati a Italia e
Olanda si sarebbero effettuati presso il complesso industriale piemontese di
Faco di Cameri, appartenente al gruppo Leonardo-Finmeccanica. Le cui linee di
produzione presenti negli stabilimenti di Foggia, Nola e Venegono si sarebbero
occupate anche di fabbricare le ali per gli F-35 assemblati negli Stati Uniti.
La
situazione, già surriscaldatasi per effetto della revisione del contratto
d'ordine, andò complicandosi ulteriormente con l'insediamento del governo formato
da Lega e Movimento 5 Stelle. La compagine grillina si era infatti sempre
espressa in maniera fortemente critica nei confronti del progetto, ed aveva
pertanto messo seriamente in conto la possibilità di congelare gli ordinativi.
Senonché, una volta presso atto dell'entità delle penali che si sarebbero
dovute pagare in caso di blocco dell'ordine, il governo decise di tirare dritto
e di onorare i termini del contratto. Lo scorso giugno, il ministro della
Difesa Elisabetta Trenta (del Movimento 5 Stelle) riferì che 13 dei 14 aerei
consegnati da Lockheed Martin erano stati interamente finanziati, e che altri
13 sarebbero stati acquistati entro il 2022. Senonché, con la caduta del
governo "giallo-verde" e la nascita dell'esecutivo costituito da
Movimento 5 Stelle e Partito Democratico, i grillini riproposero di rinegoziare
il programma di acquisto degli F-35, incassando una sonora bocciatura da parte
del ministro della Difesa Lorenzo Guerini che lasciava chiaramente presagire la
piega che avrebbero preso gli eventi. Non a caso, dopo il suo colloquio con il
segretario di Stato, il premier Conte non si limitò ad assicurare che l'Italia
avrebbe tenuto fede ai patti in relazione agli F-35, ma si
spinse a raccogliere l'esortazione di Pompeo e del segretario della Nato
Jens Stoltenberg ad incrementare gli investimenti nella difesa collettiva,
assumendo l'impegno ad aumentare le spese militari di circa 7 miliardi di euro
a partire dal 2020. Nel 2019, gli stanziamenti bellici erano rimasti fermi ai
livelli dell'anno precedente, cioè a 25 miliardi di euro. Di cui 21 rientrano
nel bilancio per la Difesa e 3 in quello per lo Sviluppo Economico, a cui va
aggiunto un miliardo per il finanziamento delle missioni all'estero. Aggiungere
a questa cifra 7 miliardi in più, pari a quasi mezzo punto di Pil, significa
aumentare le spese militari di circa il 30% in un solo colpo.
Tra di esse rientrano gli investimenti
necessari a sostenere il massiccio piano di riorganizzazione delle
infrastrutture di Camp Darby, vale a dire il più grande arsenale a disposizione
di Washington situato al di fuori dei confini statunitensi. La base, che sorge
tra Pisa e Livorno e che in passato – come acclarato dalle inchieste dei
giudici Felice Casson e Carlo Mastelloni – ha funto da centro nevralgico della
rete atlantica costituita dalla Cia e dal Sifar nel quadro dell'Operazione
Gladio, si compone di ben 125 bunker contenenti di sicuro oltre un milione di
proiettili di artiglieria, bombe per aerei e missili, carri armati, veicoli e
altri materiali militari, e forse, sostengono alcuni, ordigni nucleari. Come dichiarato dal
colonnello Erik Berdy, a capo dello Us Army Italy, Camp Darby ricopre un ruolo
chiave per la strategia militare statunitensi, perché consente il rifornimento
in tempi rapidi delle forze terrestri e aree statunitensi operanti nei teatri
europeo, africano e mediorientale. Non a caso, la base – finita peraltro al centro della
tragica vicenda della Moby Prince – è stata ampiamente utilizzata dagli Usa
durante le guerre in Iraq, Jugoslavia, Libia, Afghanistan, Siria e Yemen. Il
recente progetto di riorganizzazione di Camp Darby scaturisce dal fatto che il
volume sempre crescente di armi in transito per la base aveva reso
insufficiente il vecchio collegamento via canale e via strada con il porto di
Livorno e l'aeroporto di Pisa. Nel dettaglio, il piano prevede la realizzazione
di una nuova linea ferroviaria concepita per collegare, attraverso un punte
metallico girevole da costruire sul Canale dei Navicelli, la stazione di
Tombolo (tra Livorno e Pisa) a un nuovo terminale di carico e scarico alto
quasi 20 metri e composto da quattro binari da 175 metri l'uno in grado di
accogliere complessivamente ben 36 vagoni
e di permettere il transito di due convogli al giorno che collegano la
base al porto. La struttura sarà inoltre connessa al deposito di munizioni con
strade dedicate ai grandi autocarri, su cui armi, munizioni e materiale
militare di vario genere in arrivo o in partenza – sempre tramite rotaia – verranno
caricati tramite appositi carrelli sposta-container. È interessante notare che,
in base a un accordo specifico siglato tra Washington e Roma, circa 34 ettari
inutilizzati di cui si componeva la base (pari a circa il 3% della sua estensione
complessiva) sono stati restituiti al Ministero della Difesa italiano affinché
vi installasse il Comando delle Forze Speciali dell'Esercito (Comfose, che dal
2014 riunisce il 9° Reggimento d'assalto Col Moschin, il 185% Reggimento
acquisizione obiettivi Folgore, il 28° Reggimento comunicazioni Pavia e il 4°
Reggimento alpini paracadutisti Ranger). Vale a dire il centro di addestramento
che sforna le forze tradizionalmente impiegate nelle operazioni coperte condotte
in teatri particolarmente complessi come quello afghano. L'intesa risulta del
tutto conforme con quanto annunciato durante la cerimonia inaugurale del
Comfose del 2014, quando le autorità presenti dichiararono che il Comando avrebbe
mantenuto un «collegamento costante con lo Us Army Special Operation
Command». Di concerto con il quale, ha spiegato il colonnello Berdy, si
svolgevano già regolari corsi d'addestramento congiunti di militari statunitensi
e italiani. Il trasferimento del Comfose a ridosso di Camp Darby risulta funzionale
a realizzare un maggiore grado di integrazione tra le forze speciali italiane e
quelle statunitensi, favorendo l'interoperabilità in operazioni coperte organizzate
e condotte dagli Usa.
Le basi di
Aviano e Ghedi costituiscono invece due tasselli fondamentali della strategia
nucleare del Pentagono, che vi schiera non solo decine di caccia ma anche e
soprattutto le bombe nucleari B61, che a partire da quest'anno saranno
sostituite dalle B61-12, ordigni che offrono la possibilità di adeguare la
potenza dell'esplosione al tipo di obiettivo da colpire, dal momento che i suoi
ideatori hanno pensato di approntarne differenti versioni che vanno da 0,3 kilotoni
a 50 kilotoni (pari ad oltre tre volte la potenza della bomba sganciata su
Hiroshima). La bomba con la potenza massima è in grado di radere al suolo
un'intera città, mentre quella minima si adatta a distruggere un'area più
limitata, provocando una radioattività maggiormente contenuta. La B61-12 è
inoltre in grado di penetrare in profondità per distruggere i bunker dei centri
di comando e altre strutture sotterranee del nemico. A differenza delle ormai
obsolete B61-4, che si sganciano in verticale sull'obiettivo, le B61-12 possono
essere lanciate a circa 100 km ed essere teleguidate sul bersaglio attraverso
un sistema satellitare, e risultano pienamente compatibili non solo con il
velivolo B-2 Spirit, ma anche con gli F-16, i Tornado Pa-200 e gli F-35.
Altre B61-12
saranno inoltre trasferite presso la base di Aviano, che i lavori di ampliamento
attualmente in corso per attrezzarla ad ospitare la nuova tipologia di bomba
rendono di fatto la candidata perfetta ad accogliere le circa 50 testate
atomiche che gli Usa custodiscono attualmente presso la base turca di Incirlik. Le recenti tensioni tra
gli Stati Uniti e il presidente Recep Tayyp Erdoğan – reo di aver concordato
con la Russia la costruzione del gasdotto Turkish Stream oltre che di aver
ordinato a Mosca i sistemi anti-missile S-400 – avrebbero infatti indotto Washington
a valutare la possibilità di ridislocare le proprie bombe in un Paese ritenuto
maggiormente affidabile. E la scelta potrbbe verosimilmente ricadere proprio su
Camp Darby come suggerito
da un'analisi dell'autorevole Bulletin of Atomic Scientists e confermato
dal generale a riposo Chuck Wald della Us Air Force in una intervista a Bloomberg.
Dal canto suo, il coordinatore nazionale dei Verdi Angelo Bonelli, ha colto
l'occasione per richiedere al governo la reale consistenza della notizia e di sottoporre
immediatamente la questione all'attenzione del Parlamento, perché l'Italia – in
cui sono già stoccate oltre settanta ordigni atomici in violazione del Trattato
di Non Proliferazione a cui il "bel Paese" aderisce – rischia di essere «trasformata
nel maggiore deposito di armi nucleari d'Europa» e base avanzata delle forze
nucleari Usa, che stanno peraltro preparandosi a schierarvi missili nucleari a
gittata intermedia con base a terra identici in
tutto e per tutto agli euromissili eliminati con il Trattato Inf firmato
nel 1987 da Stati Uniti e Unione Sovietica. Lo stesso trattato da cui l'amministrazione
Trump si è recentemente ritirata e che ha costretto ad imprimere una forte
accelerata al suo programma missilistico, la cui punta di lancia è costituita
da missili ipersonici – in grado di sfuggire a qualsiasi sistema intercettore attualmente
conosciuto, come affermato in un recente
saggio di grande interesse e riconosciuto
apertamente dallo stesso vicepresidente degli Stati Maggiori Riuniti John
Hyten – che verranno inesorabilmente puntati contro l'Europa.
La pericolosa esposizione del
"vecchio continente" determinata dalla centralità che la dottrina nucleare
del Pentagono attribuisce a questo teatro strategico tende ora a aumentare con il
recente raid aereo in Iraq, nonostante Trump abbia imposto il silenzio riguardo
ai dettagli dell'operazione per evitare l'insorgere di problemi con i Paesi
alleati schierati in prima linea nelle azioni militari condotte con i droni. A partire
proprio dall'Italia, che oltre ad avere in Sigonella la principale piattaforma
di lancio e centro strategico per le trasmissioni-guida dei veicoli senza
pilota Usa mantiene contingenti militari in Iraq, Afghanistan, Libano e Corno
d'Africa (dove imprese italiane sono al lavoro per ampliare le piste e gli
hangar che ospitano i Reaper con cui gli Usa conducono le loro operazioni in Somalia,
Yemen e Iraq) che l'assassinio di Soleimani ad opera degli Stati Uniti espone
inesorabilmente al rischio di ritorsioni. Senza
contare che l'escalation tra
Stati Uniti ed Iran che si sta venendo a determinare «comporterà il trasferimento
in Medio Oriente dei carri armati e delle munizioni stoccati nell'hub toscano
di Camp Darby via Livorno e aeroscalo di Pisa. Le trasmissioni ai droni via Sigonella
e Muos di Niscemi, la mobilitazione di tutte le maggiori installazioni Usa e
Nato in Italia, l'allarme rosso nelle basi operative delle forze armate in
Medio Oriente e Africa, sono la prova evidente che la frontiera italiana si è
proiettata ormai a ridosso di Teheran e Baghdad».
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